ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
Dato che sono presenti solo recensioni nelle quali non mi riconosco per niente – anzi, che reputo addirittura agghiaccianti (quella di Tiresia esclusa), più per gli stereotipi e i pregiudizi di cui sono infarcite che per il giudizio estetico – copio incollo la mia dal blog.
A parte i contenuti, sicuramente molto coinvolgenti, ciò che colpisce di questa pellicola è anche la maestria tecnica con cui il regista Kechiche ha rappresentato una storia d’amore totalizzante, a cominciare proprio dalla scena del primo incontro tra Adèle ed Emma, ambientata in mezzo al traffico di Lille. Una panoramica in soggettiva il cui intenso realismo è accentuato dalla macchina a mano descrive alla perfezione lo stato di trance in cui Adèle precipita non appena incrocia con lo sguardo la ragazza dai capelli blu. Quanta verità è racchiusa in quella scena! Il mondo si ferma, il tempo è sospeso e diventa palpabile, Adèle è confusa, spaesata, già innamorata. Sola nel suo letto, i suoi sogni sono occupati dalla presenza di Emma, che la sfiora, la desidera, la possiede. Adèle finalmente trova il modo di riempire quello che Marivaux descrive come “un vuoto nel cuore” che necessita di essere colmato, sensazione che pervade Adèle fin dall’inizio del film e che rimane profondamente impressa sul suo viso in seguito al distacco da Emma. Credo stia soprattutto in questo la bravura dell’attrice protagonista Adèle Exarchopoulos, nel magnetismo del suo sguardo triste, malinconico, delicatamente sofferente amplificato dai primi e primissimi piani di Kechiche, che incolla la macchina da presa agli sguardi, alla pelle e ai capelli sfatti della sua protagonista. Come la sua Venere nera ballava una danza infinita del corpo, Adèle ed Emma sono ritratte in un ballo sensuale, nell’unione fisica dei loro corpi, nel piacere dell’orgasmo, per la prima volta rappresentato in modo naturale ed esplicito, e dalla durata più reale che cinematografica delle scene di sesso, finalmente anti-voyeuristiche, finalmente sincere e molto lontane dal triste immaginario pornografico maschile. La vie d’Adèle è un film che ti tiene incollato alla sedia dal primo all’ultimo fotogramma, nonostante la sua durata, che sfiora le tre ore, sia interamente costruita su primissimi piani e poca azione e nonostante l’insistenza di Kechiche sulla muta indagine emotiva e psicologica della sua protagonista, che trapela dalla profondità degli occhi di Adèle, dal contatto diretto con la sua pelle e la sua intimità, dall’angolazione della luce che sfiora il suo volto risaltandone il rossore e dal ritorno continuo e ossessivo del colore blu – fantastica, a questo proposito, la scena del bar, in cui Emma incede immersa in una luce blu che riporta automaticamente la memoria filmica dello spettatore all’inizio della pellicola, rendendola ciclicamente inconclusa con un’abilità registica unica. La scena in cui Adèle balla sulle note di I Follow Rivers durante la sua festa di compleanno, vestita di blu, è un colpo che arriva dritto al cuore: il suo fascino malinconico ricorda quello delle donne di Bertolucci quando danzano seguendo un flusso magico, ancestrale e primordiale ed è possibile afferrare, per la prima volta, un frammento della vita di Adèle, entrando con delicatezza nella sua sofferenza silenziosa, nel suo incessante bisogno di riempire quel vuoto del cuore con Emma. La continua presenza del cibo, di questi spaghetti oleosi che vengono filmati nell’istante in cui vengono divorati da una bocca in cerca di piacere, o delle ostriche dalla consistenza simile a quella che si può gustare tra le gambe di una donna – tutti elementi che mi hanno ricordato il precedente Cous cous, in cui il rapporto sensuale che intercorre tra cibo e corporalità è poeticamente suggerito – l’insistenza sui gesti quotidiani di Adèle, sul suo respiro quando dorme o quando ansima avvolta dalle mani e dalle labbra di Emma, sulla passionalità dei suoi baci e sull’intensa corporeità dei suoi rapporti sessuali con la ragazza dai capelli blu sono specchio della sua fame travolgente di vita, di amore, di emozioni assolute, di liberazione, una fame che Kechiche riesce a rappresentare pienamente attraverso uno stile incantevole, una sceneggiatura ben scritta e una fotografia eccellente (magnifico il bacio inglobato dalla luce diretta del sole, acquisisce una nota quasi surreale).
Un film che indubbiamente non andava doppiato, soprattutto durante i rapporti sessuali tra le due ragazze e nei momenti di disperazione di Adèle, talvolta ridicolizzati dalla traduzione dei suoi gemiti, dei singhiozzi e delle sue lacrime, ma che lascia addosso la sensazione di aver visto qualcosa di molto bello, anche – cosa ormai rara – a livello cinematografico.
A mio avviso, meritatissima la Palma d’Oro a Cennes. Il primo film a tematica in cui finalmente mi riconosco e in cui c’è tutto, soprattutto quella maestria tecnica che manca a tutti gli altri.
No so se è possibile farlo, i moderatori mi avviseranno nel caso, ma posto anche il link a un’apologia che ho scritto sul film, che risulta un po’ troppo lunga da copia-incollare: http://bergamocontrolomofobia.wordpress.com/2013/10/29/decostruzione-della-critica-apologia-di-adele/
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