Recensione su Tre manifesti a Ebbing, Missouri

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Spettacolo di varia Umanità / 20 Gennaio 2018 in Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Crescendo, ho imparato ad amare molto le belle storie che dimostrano quanto l’Uomo sia fallace, portato all’errore, alla confusione, al chiaroscuro, all’inciampo, storie che confermano -paradossalmente, proprio attraverso la loro natura fittizia-che, a dispetto di quanto politica, scuola, famiglia, letteratura, cinema, tv, fumetti hanno affermato a lungo, nella realtà reale, gli Eroi Buoni perfetti e cristallini non esistono e che anche sui Cattivissimi si può fare qualche ragionamento in merito. È rassicurante credere che non sia così, che esistono davvero persone completamente infallibili, capaci di fare sempre le cose e le scelte giuste, perché è Umano voler trovare un punto di riferimento, una certezza, un baluardo, un esempio.
Però, la deificazione è un’operazione cieca, egoista, perché tenta di escludere a monte dallo spettro delle azioni dell’Altro la possibilità che egli possa commettere errori, di fatto cancellando parte della sua Natura, depauperandolo di una sua imprescindibile caratteristica, solo per piacere/bisogno personale.

Una storia come questa firmata da McDonagh non fa sconti a nessuno, (di)mostrando come la varietà degli elementi psicologici, culturali e caratteriali dei singoli individui possa farli pendere pericolosamente da una parte all’altra della bilancia manichea Buoni/Cattivi nell’arco di pochi istanti, rendendola -di fatto- inutilizzabile.
Frances McDormand e Sam Rockwell interpretano due eccellenti esempi di questa diffusissima umanità lunare, e lo fanno benissimo. La McDormand è solita a questi ruoli (quello di Olive Kitteridge nell’omonima miniserie televisiva è uno degli esempi migliori), ma di volta in volta sembra perfezionare sempre di più il suo repertorio di Umanità. Qui, per esempio, è pura ferocia ferina, personalmente mai vista altrove, in altre sue prestazioni.

Tre manifesti è un film cattivo e sincero che, fra le varie cose, parla delle diverse declinazioni del senso della giustizia, sa far male in tanti modi e sa inquietare. Lo considero una prova evidente della crescita positiva di McDonagh, soprattutto -per quel che mi riguarda- rispetto al precedente “film americano”, 7 psicopatici, a mio parere troppo incerto ed emulativo (vedi, Tarantino, Guy Ritchie).
Questo, seppur debitore, per molti versi, all’approccio alla materia di autori come i Fratelli Coen, ha una sua forte identità.

11 commenti

  1. inchiostro nero / 21 Gennaio 2018

    Nella tua premessa vi è la chiave di volta del film. Credo che McDonagh abbia puntato proprio su questo.

  2. paolodelventosoest / 22 Gennaio 2018

    La penso esattamente come te, film cattivo e sincero. Eppure un’amica mi ha fatto riflettere:
    ** SPOILER ***
    ** SPOILER ***
    Lei diceva, a ragione: “Film cattivo? Ma se il vicesceriffo razzista diventa buono? Se il tizio che è stato buttato giù dalla finestra poi accudisce il suo aguzzino?!” Non ha tutti i torti.
    Sembra che laddove ci dovrebbe essere un po’ di cattiveria, McDonagh innaffi con sentimentalismo, mentre laddove ci dovrebbe essere edulcorazione narrativa, MacDonagh lasci il sapore amaro del realismo. Insomma scombina proprio tutte le carte, il terribile Martin 😛

    • Stefania / 22 Gennaio 2018

      @paolodelventosoest: personalmente, con “film cattivo” intendo dire che non è un film che dà delle certezze e, soprattutto, non è un film che fa vedere personaggi che si possono amare incondizionatamente, perché, appunto, sono tutti fallaci, difettosi e anche quelli che si comportano “bene” non sono completamente amabili. Siamo tutti così, come i personaggi di McDonagh (e quelli di Philip Roth, Elizabeth Strout, Richard Yates, John E. Williams… Mi piace credere che, oltre al riferimento cinematografico dei Coen, per esempio, McDonagh abbia diversi modelli letterari americani contemporanei): è un “film cattivo” perché non fa vedere solo il lato bello o brutto delle persone, ma il loro miscuglio, non sempre profumato.
      Anche alla fine, con poliziotto razzista semi-eroico e Lady Vendetta in auto, vediamo due persone pronte a farne fuori una terza, ma, in fondo, i due non sono troppo convinti di quello che si accingono a fare (non sanno/non sappiamo bene perché non lo siano, è uno di quei sentimenti difficili da spiegare a parole di cui si è preda molto spesso) e McDonagh fa di nuovo vedere come l’Uomo sia contraddittorio, incerto, come sia pronto -nel bene e nel male- a scombinare le carte (l’Uomo, per primo, non McDonagh 😉 ), lo scortica di nuovo, mostra di quale effimera materia siano fatti l’odio, la vendetta, il pregiudizio, ecc. che, pure, sembrano muovere da sempre la società.

  3. Peter Lee / 29 Gennaio 2018

    Riguardo all’emulativo probabilmente intendevi Guy Ritchie e non Guy Pearce 😉

  4. Mrs Pignon / 23 Febbraio 2018

    @stefania Vado a vederlo stasera, non ho ancora letto il tuo commento, lo farò dopo avere visto il film…se no mi condizioni 😉

  5. angeloa / 15 Marzo 2018

    Leggo “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” come una conferma della visione della realtà USA che ci proviene dai mezzi d’informazione.
    Le armi sono considerate una normalità della vita quotidiana.
    Le personalità problematiche sono al confine tra il compiere una strage o il suicidio. (vedi il poliziotto)
    La pena di morte è incistata nella mentalità delle persone. In fondo quello che vuole la protagonista è solo vendetta, non la giustizia. (Però un buon film americano deve avere un happy end. Alla fine i protagonisti ci comunicano che sono stanchi della vendetta. Questo è il massimo del lieto fine possibile di questi tempi).
    Il razzismo, banale osservazione.

    • Stefania / 15 Marzo 2018

      @angeloa: ho appena visto Oltre la notte di Fatih Akin. Per molti versi, la protagonista del film mi ha ricordato quella di Tre manifesti…. Akin, però, ha una concezione decisamente diversa dell’happy ending. Non sembra, ma ce l’ha. Dagli un’occhiata, esce oggi in sala.

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