Recensione su Crazy Heart

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del senso di paternità / 14 Aprile 2011 in Crazy Heart

il film non regala quasi nulla oltre a Bridges. Ok qualche spazio sconfinato che fa molto Usa, ma di coinvolgente ha ben poco. Una storia molto rimasticata in cui si insinua un amore intergenerazionale che non si sviluppa oltre il “lui è dannato, lei ci prova, ma..”. Ascesa, nel passato del cantante, e caduta, molto raccontata, infine risalita innervata sull’idea della paternità: Bridges è padre 3 volte, del Tommy Sweet (oh mamma che cognome), di suo figlio abbandonato, del bimbo di lei che gli riconsegna l’opportunità di esserlo davvero padre (il figlio di lei ha giustamente l’età del figlio di lui quando l’ha abbandonato). Sorpresa! Il mondo non è cattivo, l’agente lavora per lui in maniera onesta; Tommy non lo odia, non lo sfrutta (eppure l’idea poteva anche darsi), anzi lo ammira incondizionatamente ed ha quasi una nostalgia filiale nei suoi confronti; lei si innamora di un rottame; gli amici sono molto amici.

La cinepresa si incolla ai corpi, ai visi, soprattutto al corpo di Bridges all’interno di ogni motel, in casa, in ogni spazio chiuso, in cui le sue membra sembrano invadere lo schermo

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