Recensione su Il sacrificio del cervo sacro

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Ineluttabilità varie / 2 Luglio 2018 in Il sacrificio del cervo sacro

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Riflessioni sparse)

Lanthimos usa di nuovo il microcosmo famigliare tradizionale per raccontare il malessere dell’Uomo, non necessariamente contemporaneo, e mostrando quanto certi comportamenti non siano affatto dettati da contesti storici e sociali particolari, ma siano in grado di ripetersi ad libitum. Non a caso, sfrutta (come strumento e come pretesto) una tragedia di Euripide, Ifigenia in Aulide, i cui elementi narrativi principali sono componenti ataviche come i sacrifici filiari e i cervi sacri (appunto), ma da cui desume soprattutto il senso ineluttabile della fatalità, ossia dell’azione, imprevedibile ma meccanica e inalterabile, del Fato.

Ancora una volta, il regista greco e il suo fidato co-sceneggiatore, Efthymis Filippou (il loro lavoro è stato premiato a Cannes 2017), turbano profondamente lo spettatore, proponendogli la messinscena di uno status quo apparentemente normale, ma in realtà alienante e pronto a implodere. Le peculiarità che caratterizzano le vite dei protagonisti sono solo una forma estremamente esasperata dell’apparentemente innocuo modus vivendi di coloro i quali (cioè, noi) intendono le proprie azioni e i propri pensieri come normali e incapaci di arrecare danno o disequilibrio alla società tutta.

Gelo emotivo e asetticità sembrano dominare la vita apparentemente perfetta dei Murphy. Il nucleo è composto da due coppie: i genitori, che sovrintendono in maniera estremamente analitica al ménage famigliare, stabilendo ruoli, mansioni, abitudini; i figli, succubi e incoscienti del controllo pressoché assoluto che i genitori esercitano nei loro confronti.
L’equilibrio dell’organismo famigliare sembra assodato e assicurato, finché un agente esogeno non penetra al suo interno.
Ancor prima dell’ingresso fisico di Martin nella vita dei Murphy, l’azione corrosiva di questo agente estraneo si esplica nel senso di colpa (latente ed evidente) del capofamiglia (bravo Colin Farrell) che lo conduce a omettere, falsificare, tollerare.
Abbastanza precipitosamente, ogni cosa marcisce (la sincerità e la dedizione dei figli, in primis), senza che i genitori siano in grado di porvi rimedio. Le loro azioni diventano sempre più istintive e, quando contemplano l’umiliazione (il padre che racconta un aneddoto scabroso al figlio; la madre che vuole ottenere a ogni costo delle informazioni da un collega del marito), mostrano tutta la loro umana inutilità. La trasformazione dei personaggi in larve, in creature striscianti e poi cieche, sottolinea la regressione priva di etica a cui sono soggette le persone coinvolte in un dilemma morale. Lanthimos non lascia alcuno scampo né ai suoi personaggi, né al pubblico. Le gerarchie e gli schieramenti famigliari si annullano. Il nucleo suppura e alla sua malattia non c’è vero rimedio, perché, semplicemente, non esiste.
La comprensione che vi è assenza di uno scampo o di una soluzione razionale, o meglio civilmente accettabile, costituisce l’apice e il leitmotiv del film. Il lavoro di Lanthimos dà quasi le vertigini, perché scivola rapidamente nell’incubo e, dall’ordine formale della prima parte del film, passa alla rappresentazione (o all’evocazione) di fluidi corporei, ferite, mette a soqquadro le stanze della casa-tempio in cui vivono i protagonisti, si nutre di violenza fisica e mentale, risputandola fuori ancor più maleodorante.

Il sacrificio del cervo sacro è un thriller che di psicologico ha molto, ma che non fa delle sue componenti psicologiche la sola chiave di lettura. La struttura complessiva del film si riassume con precisione matematica in una affermazione e in una domanda dell’inquietante Martin, che sembra sfondare la quarta parete e rivolgersi al pubblico: “È metaforico. Lo capisci?”.
Il film di Lanthimos, dalla fotografia luminosa eppure estremamente inquietante, è dominato dalle musiche di Schubert, György Ligeti (come in Shining e 2001: Odissea nello spazio di Kubrick) e Sofia Gubaidulina che, a tratti, sembrano porsi nei confronti dei personaggi come un vero coro greco, sottolineando la drammaticità o l’assurdità di una situazione che, il più delle volte, deve ancora manifestarsi.

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