Recensione su Pacific Rim

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LA BRECCIA DEL PACIFICO / 26 Settembre 2013 in Pacific Rim

Guillermo del Toro ci ha abituato ad una serie di universi, che tra loro comunicano, attraverso spiragli, attraverso nebulose, e per l’appunto, brecce. Nelle opere di questo talentuoso regista messicano, infatti, i fantasmi possono essere sepolti nei meandri di orfanotrofi (“La Spina del Diavolo”), nei castelli abissali di Mondi Antichi (“Il Labirinto del Fauno”), oppure possono addirittura assumere le fattezze di vampiri cannibali (“Blade II”): il suo è un orrore che gioca sempre con la Fantasia più sfrenata, talora più favolistica o più malinconica, se non propriamente ironica e giocosa (ed è il caso ovviamente di “Hellboy”). L’interconnessione tra le molteplici dimensioni figurali, insomma, si rivela fortissima.
Ed ecco che proprio con “Pacif Rim”, ancora una volta, tale intreccio non viene meno. Qui il tributo alla tradizione giapponese risulta finanche superfluo (“Evangelion” in primis, assieme a tutta la precedente mitologia robotica del Sol Levante, senza trascurare l’inquietante cinematografia dei Kaiju, i tipici mostri colossali, in particolar modo Godzilla), ma al contempo recupera idee antecedenti dello stesso Del Toro, riallacciandosi finanche alla teogonia demoniaca di H. P. Lovecraft. Il risultato è insomma un film molto meno “americano” di quello che possa apparire (giacché non lo è affatto). E il potenziale visivo, la carica dei colori, l’originalità suggestiva, sono quanto mai sbalorditive.
La storia si snoda con una logica perfetta da favola, ma ad un livello squisito, facendoci dimenticare che in realtà sapremo già sin dall’inizio come tutto andrà a finire: il caleidoscopio emozionale si satura come non mai, e ci ritroviamo subito bambini, finendo con lo sperare che la fuga riesca, che la missione non fallisca, che il conto alla rovescia non s’inceppi. Narrativamente, quindi, nulla di nuovo – ma nelle intenzioni dei due sceneggiatori, Travis Beacham e appunto Del Toro, non vi era quella di mirare all’originalità narrativa, quanto invece appunto di farci apparire come nuovo, come ancora potente, come mai invecchiato, un intimo circuito cui siamo abituati sin dall’infanzia: e i protagonisti, idealizzati, ci vengono incontro come vecchi compagni di gioco, dei quali già conosciamo le tecniche e i valori, ma della cui familiarità taciamo o fingiamo di tacere, cedendo al dolce compromesso dello spettatore.
In definitiva: la veste di effetti speciali, di fotografia, di luci e tonalità del colore, di coreografia dei combattimenti, svetta altissima. Gli interpreti sono adeguati (ed il delizioso quanto immancabile cameo di Ron Perlman, attore-feticcio di Del Toro, risulterà decisamente gustoso per gli appassionati). Le musiche compiono il loro lavoro senza infamia, ad un livello discreto e sopra la media. La sceneggiatura è scritta bene, con dialoghi mai cafoni, volgari o banalmente trash: un climax costellato di flashback ben calibrati (quelli di Mako Mori), e di una psicologia che, ordinaria, non tradisce se stessa, rivelandosi coerente e plausibile.
Il voto, in realtà, sarebbe un 7 e mezzo.

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