Recensione su Dogtooth

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Il regista della libertà individuale non lascia libertà allo spettatore / 16 Aprile 2024 in Dogtooth

Il limite principale di questo film è nel suo essere un racconto dichiarativo e informativo, anziché narrativo, una raccolta di informazioni cumulative per mostrare un’idea. Nulla è lasciato al dubbio, all’interpretazione, al non dichiarato. Paradigmatico, a tal proposito, il personaggio unilaterale e fumettistico del capofamiglia. La pellicola è tutta costruita su un’unica idea ripetuta e insistita fino allo sfinimento, peraltro ripresa pari pari dal film del 1972 El castillo de la pureza del messicano Arturo Ripstein, ma presente anche in The Village, dove però la capacità immaginativa di Shyamalan aveva originato una narrazione a tratti misteriosa, dialettica, emozionante, intelligente, non ideologica. Aspetti che qui mancano quasi del tutto.

L’informazione si risolve piuttosto banalmente nel qui ed ora e nelle dinamiche individuali; lo spettatore deve solo apprenderla acriticamente e registrarla; manca un contesto sociale operante, ad eccezione dell’accenno al ruolo dirigenziale del padre, che gli consente di agire in modo autoritario sia con i sottoposti che con i familiari. Le situazioni paradossali e disturbanti, in un prodotto siffatto, accrescono solo il vuoto e la mancanza di idee, traducendosi in mero sensazionalismo. La conclusione frettolosa è più un’incapacità di finale che un finale aperto. In altre parole, uno dei film meno convincenti e riusciti che mi sia capitato di vedere, sul potere esercitato attraverso il controllo e la manipolazione del sapere. Una conferma che negli ultimi anni, salvo poche eccezioni, anche il cinema europeo ha ben poco da dire.

Naturalmente non nutrivo grandi speranze che questo approccio ideologico, individualistico-liberale, potesse migliorare nelle successive produzioni internazionali e hollywoodiane del regista, ossia nei paesi capofila del capitalismo globale.

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