Recensione su Gli spietati

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21 Agosto 2014

“È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha… e tutto quello che sperava di avere.”
Il titolo originale di questo meraviglioso western del 1992, “Unforgiven”, a mio parere rende in modo molto più efficace quella che è l’essenza della storia raccontata attraverso le magnifiche interpretazioni, tra tutti, di G. Hackman (tra l’altro oscar come migliore attore non protagonista), C. Eastwood e M. Freeman.
Si tratta, a mio avviso, infatti, di una storia estremamente amara ed al contempo esemplare, attraverso la quale Eastwood, che è anche regista, va a scardinare i miti classici degli eroi del west, presentandoci uomini al tramonto della loro esistenza, fondamentalmente impauriti, soprattutto di fronte alla morte, e decisamente non eroici.
In questo quadro di umana desolazione è proprio nell’impossibilità di perdonarsi per le azioni compiute sulla base dei più bassi istinti umani che sta la parte forse più importante del film.
La storia prende il via con un’aggressione, davvero violenta e brutale, ai danni di una prostituta nel più classico dei saloon.
La donna viene brutalmente sfregiata, ma lo sceriffo – interpretato in modo superbamente viscido ed infido da G. Hackman – si limita a stabilire una multa per gli autori dell’aggressione, stabilendo che dovranno consegnare dei cavalli al proprietario del saloon.
Le altre prostitute, decisamente non soddisfatte dalla mancanza di una punizione esemplare per un atto di tale violenza, decideranno di prendere una diversa iniziativa…
In questo contesto si inserisce la figura di C. Eastwood, ex fuorilegge di leggendaria ferocia, oramai ritirato a vita casalinga nella sua fattoria con i due figli avuti dalla moglie, morta due anni prima a causa del vaiolo.
Il buon Clint alias William Munny, riceverà la più tipica delle “chiamate all’avventura” dal giovane “pistolero” Kid, trovandosi così a dover decidere tra la nuova strada intrapresa o una breve deviazione nel passato per poter assicurare ai figli un sostentamento.
Ad aiutarlo anche l’amico dei tempi andati, Ned, interpretato da un enigmatico ed ambiguo Morgan Freeman.
Da qui trae origine una storia davvero di spessore, che smonta i clichè del genere pur mantenendo un setting “rassicurante”, restando fedele ai capisaldi, ma reinterpretandoli per dare alla narrazione un’ispirazione ed un’aspirazione diverse.
I personaggi sono tutti schiavi, oltre che di un passato vanaglorioso e che li tormenta, soprattutto per quanto riguarda William, anche di una scarsa saldezza interiore.
Hanno seguito, o seguono, i loro istinti, anche quelli più bassi. Si sono rifugiati in un’istintualità cieca, perdendo dunque il nerbo necessario a fronteggiare la propria coscienza, ad agire secondo una morale o un’etica che risultano troppo difficili, troppo inaccessibili.
Non sono eroi. Sono sconfitti.
William, con i fantasmi di un passato fatto di alcool ed efferatezze, e una persistente paura della morte, è uno spettro, aleggia in questo mondo senza una meta. Dice a se stesso di non essere più quello di un tempo, ma non ha mai fatto i conti con il suo passato, ha solo cercato di oscurarlo, di relegarlo in un oblio nel quale però non vuole assolutamente essere ingabbiato, tornando ad assillarlo con immagini vivide.
Non è un uomo crudele, semmai è un uomo debole. Ha una sua morale, vive per i suoi figli e disprezza chi, come lo sceriffo, si fa forte di una posizione di potere. E’ consapevole della fragilità della natura umana. Ma non è un uomo saldo, risoluto. Ha paura, esita, e agisce in modo deciso solo sulla spinta di istinti primordiali, come la vendetta, o l’ubriachezza.
Little Bill, lo sceriffo interpretato da G. Hackman, è un uomo borioso, cui il potere ha conferito la sicurezza per dare sfogo alle sue frustrazioni. Solo davanti ad un uomo disarmato ed inerme, o legato o dietro le sbarre, può essere l’eroe che nella sua mente è. Cede facilmente alle tentazioni della fama – incarnate dallo scrittore biografo di fuorilegge e pistoleri vari, Beauchamp – e dimostra una tempra da smidollato, fino alla fine.
Non c’è spazio per l’onore al tramonto di una vita priva di una reale redenzione. Ma si può abbandonare la strada della violenza dopo averne appena assaggiato l’amaro sapore.
Una meravigliosa storia di vendetta, castigo, potere. Una condanna della violenza e degli aspetti più bassi della nostra natura, con uno spiraglio di luce, seppur piccolo, sulla possibilità di distinguersi e perseguire altre strade.
Ci ho visto, inoltre, anche un monito sull’effimera natura della fama, della notorietà, che spesso si basa su mitizzazioni prive di sostanza e che dura, a voler usare la metafora che il film incarna nel biografo Beauchamp, giusto il tempo di distinguere chi è il pistolero sopravvissuto all’ultima sparatoria, per poter dirigere su quest’ultimo le attenzioni prima magari rivolte alla sua vittima.
Ho trovato magistrale la capacità di creare situazioni di crescente tensione, come la scena tra lo sceriffo e Bob l’inglese davanti al barbiere o in prigione, affatto prevedibili o tempestate di clichè.
Eastwood – e lo sceneggiatore – prendono il genere e ne esaltano i punti di forza mostrandoci situazioni tipiche ma con qualche dettaglio diverso, personaggi tipici ma caratterizzati in modo decisamente peculiare, ambientazioni tipiche ma rinate a nuova vita.
Un film decisamente complesso e dai tanti contenuti, che merita di essere visto (come dimostrano – o forse no… – l’oscar al miglior film e alla migliore regia).
La colonna sonora, davvero cupa ed efficace (e di cui, da quanto ho letto, dovrebbe essere in parte autore lo stesso Eastwood) è molto bella.
La fotografia e la regia sono quanto mai efficaci.
E, soprattutto, gli interpreti sono stati SUPERBI. Lo sguardo di Eastwood dice più di quanto io abbia potuto scrivere in queste righe senza alcuna pretesa di efficacia.
Lo consiglio.

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