Recensione su Il talento del calabrone

/ 20205.967 voti

Traballante / 19 Novembre 2020 in Il talento del calabrone

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Sulla carta, Il talento del calabrone è uno di quei film che aspetto come una manna dal cielo, perché è uno di quei film italiani che -spiego meglio- osano muoversi in territori quasi inesplorati dalle produzioni nazionali contemporanee, attingendo a immaginari battuti altrove, pur tentando di inserire nella costruzione della trama una serie di peculiarità tutte locali.
Insomma, complice anche lo slittamento dalle sale ad Amazon Prime Video a causa del COVID-19 (del film, era prevista una distribuzione al cinema a marzo e, poi, il titolo è stato pubblicato sulla piattaforma a novembre), ho confidato a lungo nel secondo lungometraggio di Giacomo Cimini (già pratico di quel cinema di genere italiano così raro), co-sceneggiato con l’esordiente Lorenzo Collalti.
Ma ne sono rimasta molto delusa.

Sull’apparato tecnico e sulla padronanza del tema del ricatto (telefonico), c’è poco da dire. Gli effetti visivi sono ottimi e tutti i cliché del genere, tipici del cinema action/thriller statunitense (fare un elenco dei film e dei telefilm in cui compare la contrattazione a mezzo telefonico sarebbe inutile), sono sciorinati con meticolosità. A supportare la credibilità degli strumenti usati dall’attentatore, ci sono anche precisi riferimenti tecnici e super esperti informatici in collegamento video con le forze dell’ordine.
Quel che traballa drammaticamente è la caratterizzazione d’ambiente e dei personaggi.
Se, pure, il ritmo della prima parte del film sia eccellente e il Carlo di Sergio Castellitto possa intrigare anche lo spettatore più scafato, a fronte di stereotipi triti (la passione per la musica classica, in primis), di questo film non salvo molto altro.

La critica alla cultura massmediologica è blanda (l’apporto narrativo dell’elemento “pubblico del programma radiofonico”, al di là del reiterato peso affidato al fattore numerico che lo denota, è nullo, non si comprende neppure se la passività degli ascoltatori di fronte agli eventi sia una precisa reazione ai fatti in scena o sia un problema di script), il Dj Steph di Lorenzo Richelmy è un coacervo di mediocrità privo di mordente e fascino, le figure di contorno (regista, redattrice, ecc.) sono impalpabili. Non mi è piaciuta affatto la Rosa Amedei di Anna Foglietta: alla ricerca dell’icona eroistica al femminile, il suo personaggio è completamente vuoto, la Foglietta (purtroppo) non riesce a cavarne niente che vada oltre qualche sguardo da dura e battute (povere) dette in maniera poco plausibile, perciò a poco è valso piazzarle addosso un abito elegante di raso abbinato a fondina e pistola, tentando di renderla l’Atomica Bionda de noartri.

Nonostante tutto, però, vista la precisa volontà di mescolare topoi d’oltreoceano con caratteri tutti italiani e apprezzata la padronanza di reparti tecnici come fotografia, scenografia ed effetti visivi, confido in un nuovo film di Cimini, sicuramente più solido nella sceneggiatura (ma… la storia dei bitcoin, poi?).

5 commenti

  1. Mr.O / 19 Novembre 2020

    Sono d’accordo su molte cose, soprattutto su Anna Foglietta. Per il resto, io gli ho messo 6 perché è un film a cui ho voluto (e ci sono riuscito) voler bene. Leggendo interviste di registi e tecnici, non è facile fare un film di genere in Italia perché si deve ricostruire da zero praticamente tutto, anche la capacità della troupe di stare al passo con le esigenze di film così. Da questo discorso non vanno esclusi gli attori, ovviamente, e la Foglietta dimostra come certi personaggi possano sembrare così ridicoli in un contesto, quello italiano, in cui non siamo abituati a vederli.
    Per questo l’interpretazione di Castellitto è ancora più grande, oltre perché dà spessore e umanità a quello che in un thriller americano sarebbe un cliché, anche perché riesce a dargli credibilità nel nostro contesto.
    D’accordo con te che Cimini meriti altre occasioni, comunque, nonostante i difetti di questo film

    • Stefania / 20 Novembre 2020

      @mr-o: svecchiare e sprovincializzare il cinema italiano è difficilissimo, Cimini si è cimentato in una vera impresa, immagino anche dal punto di vista economico. Però, avrebbe potuto giocare con dei compromessi. Magari, non è l’esempio più calzante (un po’ perché ricade in un altro genere, un po’ perché è molto geolocalizzato, a partire dagli accenti degli attori), ma Lo chiamavano Jeeg Robot di Mainetti, secondo me, è un tentativo molto più riuscito di “usiamo i cliché ammeregani, usando quello che, in Italia, abbiamo a disposizione”. Però, penso anche a Salvatores con -non so- Quo vadis, baby?, Tornatore con Una pura formalità e La migliore offerta (anche se, forse a torto, dò per scontato che i loro budget fossero più significativi di quelli di Cimini, in realtà non ne ho idea, dovrei fare delle ricerche).

  2. Mr.O / 20 Novembre 2020

    Magari mi sbaglio, ma mi sembra che l’operazione di Cimini fosse più difficile di quella di Mainetti, perché Cimini cerca di dare verosimiglianza nel contesto italiano a un genere senza dare ai personaggi la cialtroneria tipica dei personaggi italiani. Per esempio, cerca di mostrarci i carabinieri efficienti come gli americani da sempre mostrano i loro poliziotti. Cioè, lavorare in contrasto a un immaginario comune che abbiamo, caratterizzato da anni di visione di Frassica o Emanuela Arcuri in divisa, è complicatissimo. Non c’è riuscito ma, forse, con un’attrice più nella parte ci sarebbe riuscito.
    Poi, ovviamente, Jeeg è un film più ambizioso, più riuscito e più bello, quindi probabilmente è anche giusto seguire la strada tracciata da Mainetti: innestare un genere americano su basi italiane più profonde e più riconoscibili. Ciononostante, come detto, apprezzo lo sforzo di Cimini, ma su questo credo che siamo d’accordo

  3. rust cohle / 25 Novembre 2020

    @Stefania, l’atomica bionda de noartri mi ha steso, giuro.

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