Recensione su Il gioco delle coppie

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M / 13 Gennaio 2019 in Il gioco delle coppie

Il cinema di Assayas è intimamente collegato alla letteratura: l’aveva già dimostrato quattro anni fa con Sils Maria (a mio avviso tra i tre o quattro film migliori di questo decennio), e oggi ci riprova. Se allora era il teatro e il suo rapporto col mondo (e col cinema), oggi è un argomento più decisamente tecnico: l’editoria ai tempi della digitalizzazione. A corollario altri due temi sviscerati un po’ meno a fondo: l’incontro e sconto tra cinema e serie tv (molto interessante), e il rapporto tra realtà e finzione nel romanzo contemporaneo (sulla carta ancor più interessante, ma è il grande tema della critica letteraria contemporanea, e fondamentalmente tutto ciò che al riguardo viene detto nel film è già stato detto da altri e meglio).
Ma il grande oggetto della pellicola, si diceva, è l’industria letteraria nell’epoca del digitale. Le riflessioni in questo caso sono tutte interessanti, e Assayas è abile a non prendere posizione: fa dire cose anche molto diverse ai personaggi, e sta allo spettatore decidere da che parte stare, o, meglio, come fare una sintesi delle varie parti e trovare una propria posizione. Il gioco funziona quasi perfettamente, a parte che con un personaggio, la giovane responsabile del comparto digitale di una casa editrice: le sue posizioni sono troppo estreme, per la digitalizzazione a tutti i costi, per l’abbattimento del libro cartaceo, per la scomparsa delle biblioteche se non come luoghi di mera preservazione di libri antichi. In quanto estremista, è incapace di capire le posizioni altrui sull’argomento, non tenta mai di mediare, e in questo risulta assai poco credibile. Si tratta però solo di una voce in un film corale, la riflessione in generale è stimolante.
I problemi gravi sono altri, principalmente due: il primo è che il film è troppo verboso, si parla sempre, parlano tutti e sostanzialmente non si fa altro che parlare, parlare e ancora parlare. Persino una macchina da presa abile come quella di Assayas non può farci niente in questo fiume di parole; ci prova, si muove spesso a sorpresa, a volte si dibatte, ma fatica molto a far prevalere l’immagine sulle parole, o persino il suono sulle parole (è importante solo il contenuto, in questo flusso continuo di voci). Puro verbo, perfettamente aderente al tema letterario, ma si sta guardando un film, e l’esperienza filmica è alla lunga noiosa.
Il secondo difetto, probabilmente conseguenza del primo, è che manca la vita: se il conflitto teatro/mondo di Sils Maria era vibrante e colmo di sentimenti contrastanti, qui tutto agisce solo per esternare la visione dei personaggi, ma della loro vita in fondo non ce ne importa un tubo, e persino i vari tradimenti non scuotono minimamente.
È un film troppo intelligente per essere sconsigliato a cuor leggero, ma allo stesso tempo un film troppo monotono per essere consigliato: se non l’avete fatto, guardatevi piuttosto Sils Maria, quello sì è un capolavoro.

P.S. Velo pietoso sul titolo italiano, che fa sembrare il film una triste commedia romantica con Hugh Grant e Meg Ryan. Ovviamente è tutt’altro.

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