Recensione su C'era una volta in America

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14 Ottobre 2013

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Ma com’è possibile che tante persone considerino C’era una volta in America un capolavoro? Un film girato dal perfetto tamarro romano infatuato dell’America, a cui mancano totalmente gli strumenti per comprenderla, ma anche i sentimenti per entrare in una minima empatia con essa. Zero verosimiglianza o penetrazione sociologica: ebrei e cinesi sono trattati come oggetti esotici (per la serie, sai che in America convivono tante etnie?); i mafiosi sono creature ipersensibili con una connaturata predisposizione all’etica; gli intrighi tra mondo criminale, politica e sindacalismo restano in superficie e comunque sfiorano il ridicolo, sono buttati lì giusto perché se si vuole fare un’opera pseudoepica sull’America è meglio mettere in mezzo anche queste cose. Ciliegina sulla torta (che certo con queste premesse non poteva mancare), le donne sono rappresentate tutte come puttane create appositamente perché l’uomo possa stuprarle (le quali naturalmente non possono esimersi dall’avvertire istantaneamente un senso di riconoscenza e uno vivo struggimento verso il proprio stupratore). Il tutto – il che a mio avviso rende il film ulteriormente stomachevole – rivestito da una confezione di lusso che si muove lenta e nostalgica, contrassegnata quasi a ogni sequenza dalla colonna sonora strappalacrime di Morricone e ad intervalli di venti minuti-mezzora dallo sguardo (preferibilmente riflesso in una qualsiasi superficie che lo permetta) di un De Niro sempre col groppo alla gola e sul punto di piangere. Un film volgare, inautentico, autocompiaciuto.

18 commenti

  1. paolodelventosoest / 15 Ottobre 2013

    Accidenti! Questo film ti fa proprio perdere le staffe. Devo rivederlo, quando lo vidi ero troppo giovane e troppo poco interessato a questo tipo di cinema; ti farò sapere, intanto però potrei obiettarti che il “perfetto tamarro romano” è infatuato ma pure amato dall’America. E che un bravo regista non deve limitarsi a “comprendere” ma deve reinterpretare, se no parliamo di documentaristi.

  2. Dottor Benway / 15 Ottobre 2013

    Sì, ma a me pare che questa reinteretazione resti tutta viziosamente chiusa nell’ego di Leone e di coloro che lo amano. Poi, per quanto mi riguarda, non sopporto questo stile surrettizziamente poeticizzante (esempio: lei che chiude lui fuori dalla porta, e viene mostrato per alcuni secondi il volto di lei mentre sta per piangere; la ripetizione di battute o la rievocazione di sequenze per dare al film un artefatto effetto nostalgia), allo scopo di circuire lo spettatore, cercando di colpirlo emotivamente – quello sprovveduto magari ci casca, ma uno spettatore avvertito dovrebbe aver preso delle contromisure a questo tipo di espedienti. È uno stile che a mio modo di vedere andrebbe “calibrato”, “dosato” e che richiede sempre una disposizione autentica da parte del regista – da notare, per esempio, la bellezza del finale di Annie Hall rispetto allo squallore in cui degrada Leone; lo spettatore dovrebbe potersi immedesimare, ma davvero esistono tante persone che si immedesimano in uno strupro? Trovo che questa vena poetica sia a maggior ragione sgradevole e stridente perché utilizzata per esaltare la volgarità.
    Comunque, se lo rivedi, mi farebbe piacere conoscere la tua opinione aggiornata. 🙂

  3. paolodelventosoest / 15 Ottobre 2013

    Sì, è meglio che aggiorno la visione prima di inoltrarmi in questo dibattito, effettivamente.
    Ad ogni modo, la tua frase “Lo spettatore dovrebbe potersi immedesimare” non vale mica sempre. Se il principio cardine del cinema fosse l’immedesimazione dello spettatore, perderemmo per strada tonnellate di capolavori. L’arte deve saper cogliere anche lo squallore, il degrado, il dolore (pagando, certo, in termini di audience; ma quanto conterà, poi, sta audience in termini di arte?).

    • Dottor Benway / 15 Ottobre 2013

      La mia frase sull’immedesimazione si riferiva esclusivamente allo stile adottato da Leone, ovvero al registro lirico. A me pare chiaro che se si concepisce un’opera in questo modo, investendo molto sull’aspetto emotivo, lo si fa essenzialmente perché si cerca la simbiosi dello spettatore con le immagini, esattamente come avviene negli amori ingenui – ovvero, si cerca di sedurre lo spettatore, non concedendogli la giusta distanza per poter elaborare un giudizio autonomo, ma presentandogli invece una situazione nella quale egli possa immediatamente “immergersi”. Questo accade spesso per dissimulare una certa mancanza di contenuti e significati, a volte – ma il regista deve essere davvero molto bravo – invece ha una sua motivazione.
      Nel caso di Leone esiste un totale scollamento tra stile e contenuto: c’è uno strupro, ma Leone sembra che non sappia neanche di cosa stia parlando e lo stilizza come una struggente manifestazione d’amore, perché vuole che lo spettatore si innamori del suo stile e non del contenuto che sta esibendo; c’è l’incendio doloso di un’edicola, ma ancora una volta Leone lo tratteggia come un’operazione nostalgia dai risolti epici. La questione non riguarda il cogliere lo squallore, ma il come lo si coglie: in questo caso impacchettato in una forma che cerca una sua improponibile nobilitazione. Infatti in Leone non c’è traccia squallore (trattandosi di un regista che manca totalmente di realismo, che stempera qualsiasi contraddizione in questa sublimazione stilistica), ma c’è la poesia delle situazioni triviali.

  4. paolodelventosoest / 15 Ottobre 2013

    Non credo molto in questa presunta “nobilitazione dello squallore” in Leone.
    Torno però a bomba sull’argomento più scomodo, la sopraffazione maschile sulla donna, il più abietto dei crimini quale è lo stupro.
    Vi sono forme di “amore violento” in altri suoi film, penso alla brusca seduzione della Cardinale da parte di Fonda in C’era una volta il West, oppure all’accennata violenza da parte del rivoluzionario Juan Miranda nei confronti della ricca passeggera in Giù la testa. La scena dell’amplesso forzato di Noodles – vago ricordo, il mio, ma scena inequivocabilmente disturbante – va ad inserirsi quindi in un quadro complessivo, rientra nel linguaggio del regista. Una comunicazione forse meno scioccante dell’Arancia Meccanica di Kubrick, ma ad ogni modo evidente.
    Potremmo dire che in un ventennio che segue parallelamente il percorso storico dell’ emancipazione femminile – partiamo dai Sessanta dei primi due film che ho citato, e copriamo l’arco temporale fino a questo, che rappresenta l’ultimo tassello della trilogia del tempo – Leone ha mostrato la durezza di un mondo molto, troppo maschile. L’ha raccontata, senza interpretazioni sociologiche, ma solo proiettando il suo raggio artistico. Non vedo del compiacimento in questo; non credo che filmare una scena come quella abbia un fine erotico, sarebbe pazzesco. Piuttosto un malinteso amore, una passione malata, una sopraffazione sociale che una mentalità borghese vorrebbe celare. Celare per continuare a perpetrare nell’ombra, aggiungo io.

    • Dottor Benway / 15 Ottobre 2013

      Se vuoi esibire la durezza di un mondo troppo maschile, secondo me di base bisogna comunque utlizzare un registro realistico (il che non significa girare un documentario, ma usare questo canone interpretativo), bisogna mostrare delle contraddizioni, accrescere la coscienza critica dello spettatore, dargli modo di ragionare, di scoprire un significato. Leone droga lo spettatore con un flusso di immagini da lacrimuccia garantita. E inoltre una minima coscienza sociologica della situazione che si va a inquadrare la si deve avere.
      Il problema di Leone non è il modo in cui mostra il mondo maschile, ma quello in cui presenta quello femminile. Leone non esibisce l’annichilimento della donna (non mi si venga a dire nei suoi film ci sia la denuncia della condizione subalterna della donna, perché a questo punto tutti i film hanno diritto ad essere film di denuncia), ma plasma delle figure femminili dotate di una loro autonomia socioeconomica che si sottomettono per una loro indole congenita al potere maschile. La donna di Leone si compiace di volta in volta di essere puttana, passiva, di annullarsi con il sorriso sulle labbra dinanzi agli interessi del maschio, viene privata anche della prerogativa di sedurre. Il problema non è l'”amore violento” (nel quale per altro la donna è sempre spettatrice non pagante), non è la rappresentazione in sé e per sé dello stupro, ma il fatto che una donna, dopo essere stata stuprata, possa vivere nello struggente ricordo del suo stupratore, possa partecipare volontariamente, “liquefacendo” la sua coscienza, a una visione del tempo che scorre al maschile.

  5. paolodelventosoest / 15 Ottobre 2013

    Ci stiamo addentrando in un discorso che forse avrebbe bisogno di convegni. A questo punto non accenno nulla più, fintanto che non vedo sto benedetto film!
    Grazie dello scambio, molto arricchente.

  6. fiomamyblue / 19 Marzo 2015

    sei il mio eroe

  7. Max / 19 Marzo 2015

    Il cinema di sergio leone, essendo cinema epico, è sempre stato volgare, inautentico, autocompiaciuto. Qui sta la sua grandezza, proprio come l’iliade e l’odissea, se ne fotte della verosimiglianza dal momento che narra storie di eroi che, in quanto oltreumani, degli umani ricalcano solo le grandi bassezze e le più bieche grandezze. come disse quel tale: ” Più in alto della realtà si trova la possibilità”.

    • Socrates gone mad / 20 Marzo 2015

      Ti sbagli su una cosa, Max: non è che Omero se ne fottesse della verosimiglianza, ma piuttosto la verosimiglianza non ha nulla a che vedere con Omero, la sua opera e la visione del mondo della sua epoca. La materia omerica è il mito, ovvero un magma in cui realtà, simbolo e significato coincidono, così come la trascendenza sta sullo stesso piano dell’immanenza. Per questo non c’è bisogno di catene causali, di razionalità, di verosimiglianza: il mondo possiede un ordine intrinseco e immediatamente visibile. Non è ancora il tempo della tragedia, la poesia può continuare ad essere ingenua. Il cinema di Leone fa lo stesso, scavalca con un passo bello lungo il contesto storico, i rapporti sociali ecc. ecc. per attingere a un senso ulteriore che solo l’epica è in grado di suggerire. Dispiace che chi ha scritto questa recensione non se ne sia reso conto e abbia deciso di infangare col suo nick uno scrittore che di immaginazione ne aveva sicuramente più di lui 🙁

  8. Max / 20 Marzo 2015

    forse ho dato per scontate alcune cose ma mi pare che siamo sulla stessa linea di pensiero.: leone racconta il mito! il problema di questa recensione non è tanto la mancanza di immaginazione quanto piuttosto l’ignoranza totale di testo e contesto. che poi è il difetto della quasi totalità delle recensioni 2.0…

    • Socrates gone mad / 20 Marzo 2015

      Straquoto e carico Si parla (nei commenti) di “registro lirico” senza evidentemente avere la più pallida idea si cosa sia la (poesia) lirica. Immancabile il facile moralismo riguardo la scena dello stupro, neanche fossimo al circolo delle femministe isteriche; personalmente è stata una scena piuttosto dura a cui assistere, ma secondo il nostro dottore oppiomane Leone la presenta come un atto d’amore (?), talmente d’amore che al termine del fatto pure l’autista schifa Noodles per quello che ha fatto. Se il giudizio dice molto di chi lo esprime… Prima ci si lamenta che Leone vorrebbe circuire lo spettatore con il suo “registro lirico” e poi si invoca l’artista pedagogo che “accresce la coscienza critica dello spettatore”, insomma il pretino di turno. Dalla padella nella brace. Infine mi chiedo che film abbia visto il dr. Benway quando parla di donne indipendenti che si compiacciono di sottomettersi al maschio violento, dal momento che la protagonista femminile del film pianta in asso Noodles proprio per seguire la propria carriera di attrice, a discapito di tutte le insistenze (e l’extrema ratio della violenza) del proprio spasimante.

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