Recensione su Il potere del cane

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Inespresso / 5 Dicembre 2021 in Il potere del cane

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Riflessioni sparse)

Guardavo il nuovo film di Jane Campion, Il potere del cane, il primo della regista neozelandese, 12 anni dopo Bright Star (2009), e pensavo continuamente a Il petroliere di Paul Thomas Anderson (2007), cogliendo alcune assonanze tra i due lungometraggi.
Nel frattempo, mi sentivo anche un po’ frustrata -da spettatrice- per gli intenti trattenuti.

Il personaggio interpretato, qui, da Benedict Cumberbatch ha qualche corrispondenza con quello portato in scena, là, da Daniel Day Lewis (il caratteraccio, in primis). In entrambi i film, c’è una natura silenziosa, imponente e pervasiva che osserva e, in fondo, condiziona i personaggi (p.s.: il Montana della Campion, in realtà, è la “sua” Nuova Zelanda). Il periodo storico è quasi lo stesso (qui, 1925; là, la storia si conclude alla fine degli anni Venti). Ci sono ossessioni, ricordi diventati mitologia personale e c’è anche la presenza dell’alcolismo.
I due film usano come sfondo altrettante colonne portanti dell’economia americana tradizionale: l’allevamento e l’industria mineraria.
Entrambe le colonne sonore sono firmate da Jonny Greenwood dei Radiohead.
Per giocajué un altro pé, pure il minutaggio non è indifferente, in tutti e due i casi (126 vs 158 minuti).

Mi è sembrato che, qui, la Campion, premiata con il Leone d’Argento a Venezia 2021 per la regia, abbia raccontato una storia caratterizzata da una forte tensione erotica implicita, tenendo il freno a mano tirato, risultando didascalica in diversi passaggi e, all’opposto, lasciando inespressi alcuni passaggi narrativi e incomplete diverse caratterizzazioni.

Il titolo del film arriva da un salmo biblico: “Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”.
Apprendo in Rete, da una vecchia intervista de Il Mucchio Selvaggio allo scrittore Don Winslow (che, nel 2005, ha pubblicato un romanzo, che non c’entra niente con questo film, ma che ha lo stesso titolo!), che, con “il potere del cane”, si intende “la capacità e la consapevolezza dei ricchi e dei potenti di poter opprimere i poveri e coloro che non hanno nessun tipo di potere”.
Ma questo sottotesto epico è una pratica che viene disbrigata molto velocemente nel finale, senza che un simile potente riferimento religioso emerga nel corso del racconto (anzi, quella del film è -letteralmente- una terra senza Dio: l’unica divinità del luogo sembra essere il Bronco Harry continuamente evocato da molti).

Non ho letto il romanzo omonimo di Thomas Savage del 1967 da cui è tratto il film, quindi non so quanto certe scelte siano state fatte per mantenere un’aderenza (o per discostarsi, all’opposto) alla matrice letteraria.
Certo è che la “pudicizia” con cui la Campion affronta i turbamenti intimi (non solo sessuali) del Phil Burbank di Cumberbatch rendono molto piatto un personaggio potenzialmente assai interessante (acculturato e affascinante ma scientificamente rozzo, sgradevole, greve, psicologicamente violento, sicuramente frustrato, incapace di comprendersi e accettarsi fino in fondo, un po’ per retaggio culturale e ambientale, un po’ per paura).
Altrettanto mal espressa (secondo me) risulta la fragile vedova Gordon di Kirsten Dunst.

Il modo in cui Phil capitola simbolicamente davanti all’efebo che ha in casa, trasformando la sua attrazione in una strana forma di amicizia (a senso unico), mi è sembrato troppo repentino.
Certo è che, nei primi minuti di film, ho intravisto nei suoi gesti una violenza che, con difficoltà, avrei sostenuto più a lungo di così. Mi riferisco al modo disturbante, molto dottrinale ma simbolicamente efficace, con cui il personaggio di Cumberbatch vìola uno dei fiori di carta realizzati dal figlio di Rose, insistendo con un dito su quelli che, nella realtà, avrebbero potuto essere gli stami e il pistillo (ovvero, gli organi riproduttivi di un fiore).

Per i miei gusti, il finale thriller è la cosa migliore del film, dal punto di vista narrativo, perché stabilisce (finalmente e in maniera definitiva) i ruoli dei personaggi in gioco.
Phil è un ingenuo romantico (segnato, nel bene e nel male, dal rapporto con un uomo, il mitico Bronco Harry, di cui cerca di ricordare ancora l’odore sulla propria pelle, ricreando -ed evitando di eliminare con l’igiene personale- quello di animale, sudore e polvere che, molto probabilmente, B.H. aveva in vita), Rose è una manipolatrice (sono abbastanza certa che, per “necessità”, sia stata lei a uccidere il primo marito, spacciandone la morte per suicidio), il figlio Peter (Kodi Smit-McPhee) è un lucido psicopatico; George (Jesse Plemons) è metaforicamente cieco.

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