Recensione su Paradiso amaro

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Quelli che restano / 19 Marzo 2012 in Paradiso amaro

Diciamolo, Paradiso amaro non è certamente il genere di film che di solito mi smuova grandi riflessioni o stupefatti apprezzamenti, ma ammetto che vale la pena dirne qualcosa.

L’aspetto che mi è piaciuto di più in assoluto sono i dialoghi. Una volta tanto, in una produzione americana, non si è respirato quel sapore di “copione”, nel senso dispregiativo del termine: battute prevedibili, frasi fatte, reazioni dei personaggi scontate, cliché tipo drammoni, crisi isteriche, urla al tradimento imperdonabile e cose così. Al loro posto un giusto percorso di ricezione-elaborazione-comprensione-digestione-azione, anche quando sorge rabbia, frustrazione, dolore, conflitto, pur sempre compensati sull’altro piatto della bilancia dagli affetti, dall’amore, dal rispetto, dalla voglia di capire, dal pensiero riflessivo. Insomma, proprio quello che avviene in ognuno di noi, nella vita di tutti i giorni, davanti a fatti imprevedibili, che ci sconvolgono, che ci segnano, che stravolgono la nostra vita, e attraverso i quali dobbiamo passare, possibilmente imparando qualcosa – su noi stessi, o sulla vita.

Quindi, dal punto di vista di ciò che dice e di come lo dice, Paradiso amaro merita. Con questo comunque non urlerei al grande film e certamente l’ottenimento dell’Oscar – giochetto che comunque ritengo spesso insulso – mi sembra decisamente eccessivo.

Con pacata misura, dunque, si può dire è un buon film. Non lo dimenticherò 5 minuti dopo averlo visto, ma non segnerà la mia esperienza di spettatore cinematografico, e tanto meno la mia vita. Ma sì, nella fascia dei film vedibili, godibili e sensati, su di lui punta certamente una freccetta: vale vederlo.

Qualche altro dettaglio: come hanno riconosciuto in molti, Clooney è davvero bravo nei panni dell’uomo medio (“grana” a parte, naturalmente, ma medio certamente nella consapevolezza di sé, dei propri meccanismi, del proprio mondo interno, delle relazioni che è in grado di imbastire, gestire, o far fallire, e perché). Godibili anche gli altri personaggi. Un’altro degli aspetti che mi è piaciuto è la scelta di questi attori “normali”, nessuno di loro è perfetto, nemmeno quello che avrebbe dovuto essere lo strafigo da cliché – Troy se non ricordo male – e i cugini, gli amici, Sid, e così via. Una scelta fin troppo evidente e omogenea in tutto il film per non essere un registro comunicativo preciso e volontariamente scelto.

Lo stesso vale per le Hawaii… beh, mica questi gran paesaggi, poi! Su, malgrado sia martoriata, sulla nostra bella Terra, ci sono ancora ben altri paradisi (ops, appunto?)

Infine, una coincidenza che chi ha letto I sogni di mio padre di Barack Obama – nato alle Hawaii, per metà dalla porzione “bianca” dei suoi abitanti – non può non aver colto: scommetto che dietro tutta l’operazione, un riferimento all’inconsueto presidente c’è eccome: la questione bianchi/neri, tutti nativi ma diversi, viene citata spesso nel libro; alcune delle rarissime parole in dialetto fatte chiaramente pronunciare nel film sono ripetute nell’autobiografia di Obama… insomma, va beh che il caso (forse) esiste, ma non esageriamo! Ci scommetto – insisto – che là tra i produttori qualcuno ha pensato bene di sguinzagliare i propri sottoposti alla ricerca di un libro sul luogo, possibilmente originario, da trasformare in pacata ma chiara affermazione su questo “strano” posto da cui Obama proviene…

Mi sbaglierò. 😉

Sola nota triste: la (solita) scelta italiana del titolo. Sarà che il Paradiso, anche se amaro, in Italia certo vende, ma The Descendants è una scelta decisamente più interessante: la traduzione è facile, “i discendenti”, cioè, quelli che provengono da un certa stirpe di cui ereditano svariate cose, non solo materiali, ma certamente in modo più sottile, visto il film, “quelli che restano”, “quelli che rimangono”, quando gli avi, più o meno recenti, trapassano. È a loro che tocca vivere “ora” – in tutti i sensi (responsabilità comprese).

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