Recensione su Prometheus

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Ridley se n’è andato e non ritorna più. / 11 Luglio 2014 in Prometheus

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Fresca della visione di Alien, decido di vedere Prometheus, per poter giocare alle “corrispondenze”, perché, benché sia stato ribadito da più parti che i due film sono narrativamente indipendenti l’uno dall’altro, mi divertiva l’idea di cogliere gli incroci tra le due vicende (se esistenti).

Purtroppo, volenti o nolenti, l’eredità del masterpiece di Scott grava come un macigno su questa pellicola che, purtroppo, anche senza volersi spremere nel confronto tout court, è un film davvero irrisolto, sciapo, confuso.
Se, da una parte, le risorse tecnologiche a disposizione hanno permesso di rendere estremamente raffinati alcuni dettagli (fotografia stratosferica, riprese aeree emozionanti: l’arrivo delle nubi cariche di silicio elettrostatico ha un sapore stupefacentemente biblico), dall’altra hanno raggelato qualsiasi emozione che esuli dal semplice ribrezzo (e qui mi riferisco alla scena dell’ “aborto”), meccanico perché indotto dalla visione di sangue, umori e tentacoli mollicci, non da un preciso accento disturbante di natura atmosferica.
Qui, infatti, non c’è paura, c’è scarsa tensione tra i personaggi (per quanto il ruolo della Theron sia odioso e sia a conti fatti l’antagonista dell’eroina, esso è talmente estremo da risultare impalpabile ed inutile ai fini narrativi), la curiosità è vaga.

Veniamo dunque ad alcuni dei “miei” parallelismi: il perno della vicenda, dopo un iniziale depistamento, è la scienziata-credente (Noomi Rapace davvero brutta a vedersi, incerta, soprattutto) che, rimasta sola dopo l’eliminazione del resto dell’equipaggio, esattamente come Ripley, si oppone ad un’entità indefinita e che, come il secondo della Nostromo, parte in compagnia di una creatura salva per miracolo (là un gatto, qui un robot… e non dimentichiamo che anche in Alien un androide mosso dalla speculazione scientifica “perdeva la testa” e trasudava, come David-Fassbender, uno strano liquido biancastro).
Nessuno mi leva dalla testa che le luci intermittenti della sequenza in cui la Rapace, afferrata un’ascia, entra nel modulo di salvataggio sono un richiamo esplicito a quelle, magistrali, in cui Sigourney Weaver si aggirava, decisa ma terrorizzata, nei corridoi dell’astronave, braccata dalla “creatura”: messe a confronto, le due scene sono palesemente identiche, eppure il risultato (in termini di ritmo, oltre che estetici) è ben diverso.
Ciò che non mi ha convinta, in fin dei conti, è l’asetticità generale del contesto, la mancanza di quella emozionalità che spesso nasce dal connubio tra pretesto narrativo e contesto, e a questo concorrono indubbiamente le scenografie che costituiscono gli ambienti interni delle navicelle: benché Giger abbia fornito ancora la propria consulenza, qui l’astronave terrestre è incomprensibilmente linda, asettica e perfino accogliente, insomma non ha quella parvenza uterina, misteriosa della Nostromo, neppure quando ne vengono mostrate le viscere. E neanche l’astronave degli Ingegneri ispira disagio primitivo: lo spettatore può provare timore solo in funzione della presenza degli abbozzi di xenomorfi, mentre l’ambiente in sé (cosa non da poco, trattandosi di un film che gioca col registro orrorifico) non suscita alcuna emozione specifica.

Dulcis in fundo, al di là delle mie blande speculazioni “a voce alta”, davvero non sono riuscita a comprendere il significato della sequenza iniziale.

P.s.: orrido il doppiaggio italiano, con un sonoro da dimenticare, quasi metallico, ed alcune voci (quella dell’inguardabile Guy Pearce, per esempio, e mi spiace stroncare così l’altrimenti bravo Claudio Sorrentino, ma quella modulata per l’occasione non è assolutamente la voce di un vecchio…), completamente fuori luogo.

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