Recensione su Luci della città

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7 Novembre 2013

“La sua anima poetica, angelica, ingenua, benché tenace, non ha più posto in un mondo oppresso dalle macchine, dal materialismo e, nel frangente, dall’odio demoniaco.”
da Wikipedia, riferito al personaggio del vagabondo Chapliniano

Charlie Chaplin è forse la figura più caratteristica del circuito cinematografico del XX secolo. Il suo personaggio non cessa mai di esistere, dentro e fuori dallo schermo, dove la sua leggenda è cresciuta sempre più. E’ difficile per noi, nati agli sgoccioli del ‘900, capire realmente cosa fu tale secolo, nonostante dichiariamo di sentircene molto attaccati, vedendoci più di qua che di là. la realtà è ben diversa; siamo uomini del terzo millennio, e non ci è stato dato di vivere che gli strascichi del secolo passato, rendendo la nostra comprensione assai viziata, in realtà poco chiara e fatta di ricordi cinematografici, musicali e letterari, che non tutto mettono in luce. Cercare di recensire da “critico” tali film cardine è per me sempre troppo difficile, e tale operazione potrebbe risultare tanto giusta nelle intenzioni quanto fattivamente sbagliata. E’ più corretto forse cercare di intuirne qualcosa, magari uno spunto o una sensazione, e rimuginare sopra di essa come si fa con i ricordi, spesso spurgati della realtà.
Sono molte e vastissime le tematiche che un film come “Luci della città” mette in scena; dall’affresco macchiettistico della società, all’intimità dell’individuo vagante, passando da critiche e parodie di non comune spessore, e tra tutte ho scelto la decadenza, come sottolineato dalla frase iniziale, fuga di un personaggio che non si ritrova più nel suo spazio ormai quasi sommerso da inutilità o incomprensioni di uno spirito del tempo che cambia direzione. Forse il vero film è ciò che sta dietro, le vicende del girato, il rapporto conflittuale con il sonoro e l’interpretazione che abbiamo da Chaplin di un vivere indubbiamente filtrato dall’artista. Vari livelli di lettura, dalla più semplice comicità (esilaranti le scene sulla pista da ballo e sul ring di pugilato) alla più seriosa analisi, dentro e fuori dal film. Troppi criteri (di carattere tecnico e non) affollano un giudizio che, più adeguatamente, rimarrà inespresso.

Inutile nota di carattere personale: avrei preferito un finale poeticamente irrisolto, così come andavasi preludendo.

5 commenti

  1. kallen / 7 Novembre 2013

    Sai, invece io penso che il finale sia assai irrisolto.
    La fioraia prendendo le mani del vagabondo distrugge un illusione protrattasi per tutto il film: colui che pensava fosse un ricco benestante è in realtà un misero vagabondo appena uscito di prigione, mentre lei è una bella ragazza che ha un negozio rispettabile. “I can see now” lei dice, ma la domanda è: di fronte alla triste realtà, saprà vedere oltre le apparenze? saprà accettare Charlot per quello che realmente è? E nell’ultima inquadratura sul viso di Charlot si legge sì la sua gioia e trepidazione, ma si legge anche la paura che prova di fronte a questa domanda di cui non possiamo sapere la risposta. Un finale sì romantico, ma struggente e doloroso allo stesso tempo e come dissero giustamente in tanti “una delle più magnifiche scene del cinema”

  2. Joel / 11 Novembre 2013

    Molto probabilmente la tua è la lettura esatta, a cui lo stesso Chaplin aveva mirato, ma io, quando ho visto Charlot tornare lì dove aveva incontrato la fioraia, e l’ho visto sedersi, ho subito immaginato “ora arriva la fioraia vedente, lei non lo riconosce e i ruoli si invertono totalmente, senza che lei sappia mai la verità” aprendo immensi universi di senso. Sono invece rimasto ovattato quando ho visto che la verità affiorava, molto probabilmente perchè ho pensato subito che il lieto fine era scontato, essendo la fioraia una persona riconoscente, e non veniale. Ma non ha senso rivendicare un finale diverso da quello che è, e capisco la tua interessantissima interpretazione, e vedo che la differenza sta nel fatto che io ho dato per scontato che lei riuscirà a vedere oltre le apparenze.

  3. inchiostro nero / 28 Dicembre 2014

    Condivido la tua analisi, e soprattutto l’estrema difficoltà, da non contemporaneo, a recensire, o quanto meno commentare, un’opera figlia di quel periodo storico.
    In essa albergano così tante emozioni, e sensazioni, che per quanto possano essere fonte di empatia per la loro imperitura e comune natura, sembra quasi doveroso fermarsi a contemplarle, con l’occhio e il cuore di chi non le ha mai vissute, o provate. E laddove questo può considerarsi un limite, qui è uno stimolo, che ti porta ad indagare sempre più la tua coscienza alla ricerca di nuove emozioni.
    Per quanto riguarda il finale, credo che Chaplin abbia voluto rimarcare un aspetto fondamentale, ossia quello del disagio sociale, e di abbattere un certo stereotipo di bellezza, sempre raffigurato in certi termini. Nella sequenza che poi chiude il sipario, si avverte una profonda paura per la verità affiorata, e per come questa venga affrontata. In essa c’è tutto lo smarrimento, tutta l’aspirazione, e soprattutto, tutta l’emotività raccolta nell’arco della visione, e sebbene non vi sia una vera e propria risposta, fa piacere notare che la fioraia porti la mano del dinamico Charlot al proprio petto, come per cullare quell’effimera e candida bellezza che è l’amore.

    • Joel / 29 Dicembre 2014

      Molto bella la tua analisi, che mi spinge a riguardare il film essendo passato già un po’ di tempo. Grazie degli spunti, e degli arricchimenti a punti di vita condivisi.

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