12 Recensioni su

Il giovane favoloso

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L’infinito … di noia / 20 Luglio 2015 in Il giovane favoloso

Nonostante gli sforzi degli attori per rendere il film digeribile e anche del curatore musicale che ha inserito alcuni brani di musica elettronica moderna, forse per alleggerire il tono, questo film risulta, soprattutto nella seconda parte, inutilmente lungo, scontato e quindi noioso, noioso e noioso.
Tutto una conferma almeno per me, del resto se Leopardi non mi ha appassionato quando studiavo cosa pretendevo da un film, miracoli?

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Si fa quel che si può / 1 Luglio 2015 in Il giovane favoloso

Chi va con lo zoppo impara a zoppicare. No, non ce l’ho col povero grande Leopardi, ma con l’universo “Rai fiction” et similia che ammorba indegnamente il recitativo degli attori italiani. Elio Germano ce la mette tutta per uscire dai canoni di repertorio, talvolta ci riesce ma i residui sono durissimi a morire; la recitazione sempre tesa, lo scialo di sguardi stralunati, quel fastidiosissimo respiro nervoso che intercala la dizione, il dondolio del mezzobusto per schematizzare grossolanamente una qualsiasi problematicità (dall’epilessia alla schizofrenia, dalla gobba al mal di denti, tutto è uguale: sembra obbligatorio far partire il “cavallino a dondolo”).
Non è che manchi la scuola, è che se non fai il raoulbovino alla tivvù per le casalinghe italiane, mica sbarchi il lunario. Del resto, se sono operaio metalmeccanico e lavora solo un’officina dove è obbligatoria la tuta fucsia, cos’altro potrei fare se non indossare la tuta fucsia?
Ci prova l’esteta Mario Martone, sceneggiatore davvero originale e regista pieno di idee, ma un bel calesse senza cavalli di razza fa quel che può. Onore al merito, comunque, di chi sta riportando il cinema italiano a buoni livelli, facendo pian pianino spurgare l’ odiosissima parlantina caciaronisterica dell’attore italiano.

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Fedele e didascalico, un po’ lento / 22 Maggio 2015 in Il giovane favoloso

Ritratto fedele e preciso della biografia di Leopardi, direi didascalico. Ottimo per chi sta studiando l’autore e vuole scavare nel personaggio per comprendere al meglio le opere. Elio Germano ne dà un’ottima interpretazione e la colonna sonora è suggestiva, così come alcune inquadrature.
Ma non si può nascondere che il film cade a tratti nel noioso, sopratutto nella seconda parte, si riprende un po’ nel finale, con lo spettacolo del Vesuvio e la declamazione de “La Ginestra” in fuori campo.

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e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto / 22 Maggio 2015 in Il giovane favoloso

Poeta magico che adoro profondamente in tutto e per tutto, film lungo. pesante. lento. in esso si racconta la quotidianità, il dolore, le tristi forme dell’albatros della grande poesia, dei grandi racconti. il principe delle nuvole, che nella terra ferma è goffo. pesante. e lento.

leopardi / 19 Aprile 2015 in Il giovane favoloso

il film è fedele alla vita di leopardi chi si aspetta chissà che cosa ha sbagliato film , molto rigoroso e a volte pedante presenta il personaggio di leopardi in maniere egregia con un Elio Germano strepitoso. La prima parte del film è sicuramente molto più bella della seconda, qui leopardi appare come un rivoluzionario, geniale e imbrigliato in catene corporee e mentali. La seconda parte è decisamente di un livello inferiore. Secondo me se Mortone si fosse limitato a fare la prima parte il film sarebbe stato migliore. Da notare la bellezza di riordino in questo film 😉
p.s. anche l’occhio vuole la sua parte

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Brutto e fedele / 26 Marzo 2015 in Il giovane favoloso

Due generi di difetti si possono imputare al film di Martone: difetti dovuti alla modalità secondo cui il biopic è stato realizzato e difetti che non dipendono dal film medesimo ma che, dal contesto culturale in cui esso è stato prodotto, finiscono per incombere come zavorre inevitabili.

Al primo genere è ascrivibile quella piaga che, parafrasando Croce (il quale si riferiva alla pratica della traduzione), divide i film storici e le trasposizioni secondo la dicotomia brutti e fedeli/belli e infedeli. Purtroppo “Il giovane favoloso”, nel suo rigore filologico, appartiene alla prima categoria.
A questo vada aggiunto uno stile, narrativo e recitativo, improntato sull’esplicitazione, restio alla sfumatura, alla costruzione paziente di situazioni e stati d’animo, e tutto questo nonostante la durata del film, che avrebbe dovuto consentirlo. Il padre Monaldo non è un padre-padrone uscito da un film di Bergman, ma un kattivo scolpito col martello pneumatico. Allo stesso modo l’animo di Leopardi, pur nella complessità del suo tormento, risulta in ultima istanza non cesellato, ma abbozzato nei continui tic nervosi e nella goffaggine che sfiora più volte la parodia e la caricatura. È difficile mantenere un equilibrio tale da permettere di non valicare quella sottile linea che divide il pathos dal patetismo e Martone non sempre ci riesce.
A ciò contribuiscono le scene in cui il poeta recita i propri versi a se stesso che, se sono facilmente spiegabili con la necessità di far parlare in qualche modo la lettera scritta, risultano nondimeno eccessivamente artificiose.
Appare incomprensibile anche la scelta di sottolineare l’immagine con musica elettronica e cantato in inglese, con effetti di straniamento che forse, nelle intenzioni del regista, volevano creare un contrappunto originale, ma che di fatto generano soltanto strambe dissonanze fra gli arzigogolati dialoghi ottocenteschi, le immagini d’epoca, e le algide sonorità contemporanee.

Riguardo ai difetti derivati dal contesto socio-culturale odierno, si può dire che l’idea di realizzare una pellicola su un poeta con una sensibilità così anacronistica rispetto alla nostra (e forse per questo estremamente attuale nella sua conflittualità) potrebbe apparire alquanto coraggiosa. Tuttavia è innegabile che il medium cinema, in questo caso particolare, soffra dello sguardo smaliziato e tutt’altro che romantico con cui lo spettatore contemporaneo è abituato a osservare ciò che lo circonda. Il tormento interiore del protagonista, seppur sublimato nella riflessione filosofica e nella creazione poetica, non può che risultare stucchevole nella dimensione sociale, collettiva e manifesta dell’immagine proiettata in una sala cinematografica. Certi sentimenti, oggi, risultano affrontabili soltanto nell’intimità della lettura individuale, in cui il dialogo interiore con l’opera non teme la vergogna della pubblica esposizione.
Se c’è infatti un punto su cui l’esperienza di Leopardi invita a riflettere (riflessione che, come sempre, non può essere che riflessione sull’oggi e su di noi) è proprio questo: lo squarcio aperto tra la sua insistita, ostentata, intrepida e coraggiosa volontà di non abbassare lo sguardo di fronte alla parte oscura e infelice della vita e l’atto di rimozione che di quella stessa parte avviene nella nostra epoca, in cui il tabù culturale imposto su ciò che invariabilmente caratterizza in diversa misura la vita di tutti (l’infelicità, appunto), assieme al godimento obbligatorio, istituzionalizzato e a tempo pieno, nasconde soltanto lo stigma sociale e il bieco moralismo verso chi esibisce o non riesce a nascondere la propria angoscia.
Angoscia da cui peraltro, almeno nel caso di Leopardi, scaturisce un irrefrenabile e felicemente sovversivo desiderio di abbandonarsi alla vita.

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9 Marzo 2015 in Il giovane favoloso

Elio Germano interpreta Leopardi e il suo “studio matto e disperatissimo” che lo condizionerà per tutta la sua pur breve vita.
Pellicola dove si evince il pessimismo del poeta che cozza con molti intellettuali del suo tempo. Di conseguenza dovrà faticare non poco per farsi apprezzare.
Come film però l’ho trovato non molto lineare. Non saprei ma si sente tutta la lunghezza del film. Oltre che lento non fruisce bene. Elio Germano (che adoro) è bravo come ormai ci ha abituato però è proprio il film che risulta pesante.
Non mi ha per niente convinto.
Ad maiora!

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23 Febbraio 2015 in Il giovane favoloso

E’ fatto molto bene, ma non è il mio genere di film. L’ho trovato troppo lungo e un po’ noioso.

6 Novembre 2014 in Il giovane favoloso

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Questo Leopardi, crescendo, sempre più le sembianze assume di un triangolo rettangolo. Durante la giovinezza incatenata, accanto agli anonimi fratelli, dal padre buffamente chiamato Monaldo, Giacomo si sente in gabbia e sogna la fuga dall’ermo colle e tutte quelle robe lì. E successivamente, nella sua vita disordinatamente infelice ai lati dell’Italia, portato a volte letteralmente a braccia dall’amico Antonio Ranieri (che probabilmente gliel’appoggiava, ma non si sa u_u). Sempre più a 90. Ehm? Germano è assai impegnato e bravo nella metamorfosi che devitalizza il corpo che invecchia del poeta, interpretando un personaggio col quale è però difficile piuttosto entrare in empatia. Chiuso nei palazzi della mente, non ha nulla di una normalità qualsiasi, a parte il fatto che tutti, tutti, gli parlano di poesie e di politica mentre lui giustamente vorrebbe solo scopare. E lo capisco. E lo dico non nel senso che tutti mi parlino di poesia eh. Assonanze e dissonanze si rincorrono, con i ricordi scolastici di ogni spettatore, ché Leo era huge e non era nemmeno a fine anno, per cui non lo saltava nessuno. Intento pedagogico e divulgativo a parte, che è chiaramente meritorio, ’impresa che Martone si assume nell’affrontare un mostro di fine livello della letteratura di tal genere altrettanto è enorme e difficile. Perché era la persona ad essere straodinaria, e niente affatto la sua vita, o semmai in negativo, per sottrazione di affetti e sentimenti, a scapito della raccontabilità. Accanto e al confronto di Giacomo, inevitabilmente trascolorano gli altri, sminuiti; gli attori, lo sfondo, la pur bella ricostruzione della Recanati dove è cresciuto; risaltano le poesie, rievocate spesso per intero in un’altalena di convincimento. Ora sì, ora non troppo, ora forse. Ci sono inserti visionari, che tentano di dare corpo alle tematiche leopardiane, la natura immensa e spietata, Silvia che gnocca, la disperazione, ecc. Ora sì, ora no.

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La carne dietro l’idea / 28 Ottobre 2014 in Il giovane favoloso

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Fughiamo subito un dubbio. In questo film, chi cerca Leopardi, troverà Leopardi. Troverà i suoi turbamenti, le sue malinconie, le sue ribellioni. Prima del poeta, troverà anzitutto l’uomo, il singolo, la carne dietro l’idea – l’individuo strappato alle polverose biografie dei manuali scolastici, e allo studio passivo cui troppo spesso, ahinoi, si è condannati da una certa impostazione liceale. Talora qualche professore illuminato – ne siamo piacevoli testimoni in prima persona – può aver condotto uno scavalcamento della rigidezza scolastica; egli può aver cioè profuso calore a quell’impasto di nervi e filosofia, che nel grigiore odierno, dallo studente medio, vien percepito tutt’al più come estraneo, se non addirittura come ridicolo. Eppure il limite di parecchio insegnamento risiede nell’incapacità di sciogliere la consueta patina ombrosa, formatasi anno dopo anno, e di vincer la tenacia d’una paralisi grossomodo idealistica. Il merito di Martone, insomma, è proprio questo: d’aver restituito fattezze ad una mente, tra le più grandi della Letteratura italiana, che sinora è stata banalizzata senza pietà, più volte chiusa nella caricatura e dentro l’amarezza incolore d’uno stereotipo. Leopardi era gobbo, era deforme – dunque componeva poesia triste. S’adopera così, a titolo improprio e universale, una chiave di lettura che invece apparterrà solo in seguito al maledettismo francese, eppoi al divismo dannunziano, ovvero: il poeta deve render la propria vita pari alle proprie opere. A confutar questo punto insiste con buona ostinazione, e pur con nervosa rabbia, il regista: Giacomo amava l’Uomo, malediva la Natura; i suoi versi ambivano ad un riscatto, non ad una resa.

“Il giovane favoloso” può esser pertanto diviso in tre atti.
Il primo, ambientato interamente a Recanati, è potente. Si mostra la gioventù del Leopardi: la clausura nella casa paterna, lo studio assiduo nella ricca biblioteca di famiglia, il vagar nella campagna, i primi sintomi della malattia, le fugaci apparizioni di Silvia (alias Teresa Fattorini), il carteggio e l’incontro con Pietro Giordani, il fallito tentativo di fuga. A dominar qui è l’influenza di Miloš Forman: difficile non leggere un accostamento tra il padre, Monaldo Leopardi, e Leopold Mozart (fors’anche con Johann van Beethoven). La figura paterna è difatti poderosa, invadente, autoritaria: Monaldo – ben interpretato da Massimo Popolizio – amava il figlio, e ne intuiva anche il genio, ma anziché ostentarlo in giro per l’Europa come una bestia da circo, lo chiudeva sotto un’asfissiante campana di vetro. Di frequente, colle sue abnormi aspettative, colla concezione d’uno studio estenuante e quotidiano, colla sua devozione ingessata pei classici, col suo conservatorismo politico, l’amore verso il primogenito assumeva perciò l’incombenza gravosa d’un tiranno. A tratti si rischia di calcar troppo la mano, romanzando taluni espedienti e trasformando Monaldo quasi in un bieco inquisitore – tendenza di cui, a suo tempo, abusò molto più Forman; ma come in “Amadeus” la si è perdonata a quest’ultimo, la si può perdonare (e apprezzare) anche nel caso di Martone. Poiché il succo non cambia, né viola la realtà: Leopardi era schiacciato dalla reverenza genitoriale, dalla debolezza fisica, dal provincialismo culturale di Recanati – e quest’ultima, occorre ricordarlo, rientrava nei possedimenti dello Stato Pontificio. Dinanzi alla scoperta della fuga notturna dal paese, un urlo silenzioso esplode nell’intimo del giovane poeta, ed esso sigilla la viscerale insofferenza nutrita contro il mondo di siffatta aristocrazia, ch’era tanto misera di spirito, quanto sterile all’azione e bigotta all’inverosimile: la madre Adelaide, sia col gelo degli sguardi lanciati a tavola, sia col vuoto mormorio degli avemaria, ne opera una perfetta sintesi. Nondimeno, alla vacuità e alla distanza degli adulti, supplisce l’affetto pei fratelli, Carlo e Paolina, ai quali Giacomo sarà sempre grandemente legato. Compaiono allora i primi Canti, alcuni solo citati coi titoli (All’Italia, Sopra un monumento di Dante che si preparava in Firenze); altri recitati. È “La sera del dì di festa” a risuonar finalmente nella penombra della biblioteca, al cospetto della Luna – e non ci vergogniamo nel confessar che, complice forse l’amore da cui siamo legati al nostro Giacomo, la scena è riuscita finanche a commuoverci. Interessante poi, seppur meno riuscita, la composizione de “L’infinito”, affidata ad un’inquadratura fissa del poeta, a cui s’accompagna una valorizzazione degli elementi sonori, quali il vento che sussurra tra le fronde boschive; il gioco che Leopardi va facendo con la siepe, d’alzarsi e abbassarsi per scorgere e nascondere l’orizzonte, in apertura del film, in verità avrebbe avuto maggior senso se montato proprio in questo passaggio. Si apprezzano, inoltre, i riferimenti alla stesura cominciata dello “Zibaldone”, ove va sempre più definendosi la metodologia del dubbio, arma del’intelletto con cui la ricerca socratica del Vero può esser spinta ben oltre le illusioni umane – ed è probabilmente questa la parte dell’intera pellicola in cui vien meglio delineato il sistema del pensiero leopardiano, figlio dell’Illuminismo, quindi assai distante dagli assoluti ed eterni ideali del Romanticismo. Anzi, a dirla tutta, è questa la parte più riuscita dell’intero film, grazie ad una maggiore compattezza narrativa, ad un maggior lavoro psicologico e ad un maggior coinvolgimento da parte dello spettatore.
Il secondo atto vede un salto temporale di dieci anni. Dal 1820 al 1830. La forzatura s’avverte, poiché rimane ignoto il modo in cui Leopardi sia riuscito ad emanciparsi dalle briglie familiari, né viene adottata alcuna naturalezza nel passaggio da una fase all’altra: il taglio è inferto con l’accetta. Ora il poeta risiede a Firenze, assieme ad un amico, il devoto Antonio Ranieri, ambedue in condizioni assai precarie. Ranieri lo accudisce e lo sostiene affettuosamente, ma ben poco si comprende della sua natura di letterato: pare invero più un libertino, irrequieto e un po’ sbandato, al quale l’interpretazione di Michele Riondino non conferisce un notevole spessore. Anche la poesia di Giacomo passa in secondo piano, giusto accennata qui e là, con qualche verso citato da Pietro Giordani (ciò che divien triste se si pensa alla rapidità con cui si liquida il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”) senza ulteriori approfondimenti. Compare la figura di Fanny Targioni Tozzetti, la quale esce profondamente antipatica, oltre che poco chiaroscurata, a causa della sua costante smorfietta ironica e quasi pietosa, imputabile alla recitazione frigida di Anna Mouglalis. L’intero ciclo di Aspasia, a lei rivolto, culmina nell’implicito rifiuto, e nel tormento che ne scaturisce nel cuor di Leopardi, cantato dai versi di “Amore e morte” (sebbene, a parer nostro, si sarebbe di gran lunga prestato meglio “A se stesso”, ch’è la vera epigrafe tombale apposta a quell’innamoramento). Più interessante la scena dello scontro cogli accademici della Crusca, intellettuali troppo compromessi ideologicamente, e politicamente, perché fossero in grado di comprendere ed approvare il contenuto rivoluzionario delle “Operette morali”. Proprio da lì vien poi raffigurato il “Dialogo della Natura e di un Islandese”. Pur ricorrendo ad un’estetica un po’ pacchianotta, nel caso dell’immensa statua cogli occhi materni, ciò non significa, comunque, che l’accostamento tra le due supreme indifferenze, da parte della Natura e di Adelaide, almeno concettualmente, non funzioni.
Dopo una breve parentesi a Roma, il terzo atto si svolge a Napoli. Qui i luoghi comuni divengono fin troppo ricorrenti, ed essendo Martone napoletano, un po’ ci spiace: a cominciare dall’acida padrona di casa, caricaturale e totalmente fuori luogo; passando per il risuonar delle consuete grida sguaiate dentro i vicoli; ascoltando il napoletano folkloristico delle tavole imbandite; fino al torbido lupanare assediato dagli scugnizzi. Senz’altro corretto sottolineare lo spiritualismo religioso, contro cui lo stesso Leopardi si scaglierà, ironico e irriverente, mediante i versi dei “Paralipomena della Batracomiomachia” e de “I nuovi credenti”. Ed è intelligente far emergere il rapporto di Leopardi, sempre più malato, sempre più curvo, col popolo festoso: egli che per davvero si prestava a fornir numeri del lotto, divertendolo la credenza di portar fortuna grazie alla gobba; egli che sostava pomeriggi interi in Largo della Carità (nel film divenuto il portico di Piazza del Plebiscito) dinanzi ai propri amati sorbetti e gelati; egli che veniva canzonato col soprannome dialettale de o’ ranavuottolo. Anche a Napoli i letterati erano tuttavia distanti dal suo pensiero, e non avevano né la voglia né gli strumenti per poterlo capire – difatti l’alterco che ne deriva, dentro il caffè, ben chiarisce come egli fosse orgoglioso, e come egli difendesse con veemenza un sistema che, all’occhio disattento, sembrava scaturir dalle sue deformità e dalle sofferenze fisiche. Quando scoppia l’epidemia di colera, e sotto l’incalzare dell’idropisia, è tempo di fuggire altrove. Si va a Torre del Greco. Leopardi trae lì ristoro da un clima che gli è più favorevole; visita le suggestive rovine di Pompei ed Ercolano; scopre le lave del Vesuvio; contempla la volta stellata. E qui pon mano al suo capolavoro, all’approdo del suo sistema, che non va chiudendosi nel cinismo, ma che invece s’apre ad una fratellanza universale: “La ginestra”. Anche in questo caso si avverte però la mancanza d’una maturazione filosofica, da parte della sceneggiatura, e il vuoto si manifesta ancor più che in altri momenti, poiché nessun accenno vien fatto alla “social catena” – epicentro del poemetto. Nondimeno, allo schiudersi degli spazi cosmici, con le panoramiche del cratere vesuviano, con le lave fumanti (dell’Etna) e cogli occhi umidi e morenti del poeta, la storia riceve una meravigliosa conclusione, in virtù della quale il rischio del patetismo, qualora si fosse rappresentata la morte di Giacomo, vien per fortuna scongiurato.
Una conclusione perfetta per un film imperfetto.
L’interpretazione di Elio Germano è superba: col materiale a disposizione della sceneggiatura, nulla avrebbe potuto trarne di migliore. La metamorfosi non lo abbatte mai per davvero – ed è lui il vero “giovane favoloso”, che colma, attraverso sguardi ed espressioni, le lacune della storia.
La fotografia è policroma, accesa, ben curata, tanto negli interni quanto negli esterni, benché talora tendente un po’ troppo alla sovresposizione. L’uso della macchina a spalla appare forse abusato e non sempre riuscitissimo.
Le musiche, composte dal tedesco Sascha Ring, noto con lo pseudonimo di Apparat, combinano elementi elettronici con archi e pianoforte, assieme ad altre suggestioni classiche. Il tutto non si adegua tuttavia ad ogni situazione, allorché se ne ottiene un effetto artificioso, quasi straniante, facile da scusar col termine di “moderno”, rispetto alle immagini. Non è l’accostamento alle altre melodie presenti, in particolare di Rossini, a suonar fastidioso; quanto la deriva pop che piomba quasi come un insulto addosso a taluni avvenimenti (uno su tutti: il dolore di Leopardi dopo aver scoperto la relazione amorosa tra Fanny e Ranieri).
A tirar le somme, ecco cosa si pensa. Martone, se da una parte ha evitato il pericolo di creare una sorta d’antologia scolastica, ha però svuotato troppo, talora decontestualizzando, l’ideologia leopardiana; ed è finito nell’orbita d’una biografia priva di reali cause ed effetti. La poesia è divenuta ornamento; v’è poca compenetrazione (non sentimentale, sempre presente; ma intellettuale) tra l’autore e la propria opera. C’è molto il Leopardi uomo; ma poco il Leopardi pensatore e pochissima meditazione. Se ne ha quindi un’immagine grossomodo incompleta. La nostra speranza è che possa fungere da magnete, comunque, verso i testi del nostro, e che favorisca così una sua riscoperta.

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26 Ottobre 2014 in Il giovane favoloso

Faccio una premessa: non è il mio genere di film.
Seconda premessa: condivido il parere dei contemporanei di Leopardi indicato nel film quindi nemmeno il personaggio mi è affine

La mia sensazione vedendo questo film è che sia un esercizio, una ricerca perenne di inquadrature e scene studiate perfettamente a tavolino, al punto che rimangono indipendenti tra loro, slegate.
Le scene non mi sembravano naturali, durante la visioni mi pareva di sentire la voce del regista che dava istruzioni eccessive, probabilmente è dovuto a questo l’interpretazione di Germano che mi è parsa spesso una caricatura della figura di Leopardi

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24 Ottobre 2014 in Il giovane favoloso

“Il giovane favoloso”
Genere: Biography / Drama
Regia: Mario Martone
Sceneggiatura: Mario Martone, Ippolita Di Majo
Cast: Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis
Anno: 2014
Il film di Mario Martone è già un “cult”. Questo non solo perché ha raccontato la vita del più grande poeta che sia mai esistito, ma sopratutto in termini di realismo e messa in scena. Premetto che da letterata e amante degli scritti di Leopardi ho guardato il film con grande trasporto emotivo e questo non so se può essere deviante nel mio commento al lungometraggio ma non posso che farmi trascinare dal mio istinto e scrivere quello che mi ha trasmesso. “Il giovane favoloso” viene interpretato da Elio Germano ma quella dell’attore non è una mera interpretazione, è qualcosa che va ben oltre, l’attore romano calandosi totalmente nella parte ci ha offerto una delle più grandi interpretazioni della sua carriera, in quanto si è lasciato ispirare dai versi dell’ autore di Recanati che è come resuscitato.
Il film ha una struttura lineare, segue passo passo la vita del contino, da Recanati al periodo fiorentino e napoletano, indagando con estrema cura le dinamiche familiari, il rapporto con i genitori, i suoi due fratelli, passando a quello con la scrittura, l’amore sconfinato per la poesia che nasce sin da bambino tanto da ricevere negli anni le lodi dei maggiori filologi del tempo come Pietro Giordani e Vincenzo Monti, segue poi attentamente la lunga frequentazione con Antonio Ranieri e il suo amore per Fanny Targioni Fossetti. Le scene di maggiore intensità sono quelle in cui Leopardi recita i suoi versi da “A Silvia” dalla finestra del suo studio passando all’ “Infinito” in quei “interminati spazi e sovrumani silenzi” del suo borgo natio dove l’io si annega nell’immensità dell’ infinito spaziale e temporale perdendo completamente la sua identità. Il regista racconta bene l’evoluzione del suo pessimismo, storico all’inizio e cosmico poi, la natura benigna e quella maligna che si rende manifesta nel “Dialogo della natura e di un Islandese” fino alla “Ginestra” recitata ai piedi del vesuvio in seguito all’eruzione tra le rovine di Pompei; il film si chiude proprio su queste note, quelle dedicate al fiore del deserto che resiste alla malignità della natura, ed è con questi ultimi versi composti a Torre Del Greco che si spegne il nostro poeta ormai giunto al culmine della sua sofferenza fisica. Molto interessante è la colonna sonora (‘Goodbye’ di Apparat) che fa da sottofondo al racconto biografico, questa tutt’altro che d’epoca da un tocco di modernità che non guasta e rende il film ancora più magico, insieme alla fotografia del film che ho trovato bellissima.

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