Recensione su Dogman

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Garrone – Dogman / 8 Giugno 2018 in Dogman

Mi sorprende sempre Garrone, sia nel bene che nel male. E questo che mi piace, lui non si è adagiato su i suoi allori, anzi non ha paura delle sue tensioni interiori e Dogman è così.
Una continua tensione interiore, piccoli accenni di comicità che stridano e ti lasciano quel sapore metallico del sangue in bocca. Non è violento, no per nulla, è cruento. I protagonisti sembrano i personaggi di Brutti, sporchi e cattivi, che sopravvivono a se stessi, una periferia che pare lontana, un non luogo, ma che diventa status simbol.
Una pellicola cupa, al limite del gotico urbano, nuovo realismo??
Garrone si ispira ad una vicenda vera, che all’epoca aveva riempito le pagine della cronaca dei quotidiani ma ne fa un film sull’animo umano.
Su quel passeggero oscuro che a volte ti ritrovi come compagno di vità.
Copio qui sotto la bella intervista al regista.

Matteo Garrone: «Il sesso e l’amore sono le mie ossessioni»
di Aldo Cazzulli

Il regista di Gomorra e Dogman, premiato a Cannes: «Desiderio, carnalità, ricerca del piacere contano molto per me». Il fascino della violenza: «Lo subisco, è parte della vita»

Matteo Garrone sta già girando un altro film: Pinocchio. Oggi sta facendo il provino per scegliere la Lumaca. Quella che fa aspettare Pinocchio nove ore, prima di aprirgli la porta: «Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta…». Passa Aniello Arena, il protagonista di Reality, che nell’ultimo film di Garrone, Dogman, ora al cinema, fa la parte del poliziotto.

Garrone scusi, ma Arena non era in galera?
«In effetti ha preso l’ergastolo per una vecchia storia, ma dopo vent’anni ora può uscire. Lavora qui, a Roma, agli Studios sulla Tiburtina. Porta le sedie, sposta i tavoli. Staccava un attimo per girare le sue scene di Dogman, poi tornava al lavoro».

In effetti come poliziotto è convincente.
«Se non lo sa fare lui, che con i poliziotti ha passato tutta la vita…».

Dove ha trovato invece Marcello Fonte, il protagonista di Dogman premiato come migliore attore a Cannes?
«Lui aveva già recitato. Viene dalla Calabria, da una famiglia contadina, poverissima. È arrivato a Roma a 18 anni, sognando lo spettacolo. Fa il custode del centro sociale Cinema Palazzo».

«Quand’ero piccolo sentivo le gocce di pioggia sulla lamiera e sognavo fossero applausi…». Un uomo dolcissimo.
«Ha una grande sensibilità e delicatezza, molto femminile. Infatti il pubblico femminile ha molta empatia con lui».
Come quando torna nella casa svaligiata per salvare il cagnolino che il complice ha chiuso nel freezer. O quando massaggia il molosso che mugola di soddisfazione.
«Non è un mugolio, è un rantolo. È un cane anziano. La scena doveva essere diversa: il padrone porta il cane per l’ultima volta da Marcello, prima di sopprimerlo; scoppia in lacrime, e Marcello lo consola. Ma non funzionava e l’abbiamo cambiata».

Perché?
«Perché non è facile contaminare i registri, dosare il comico e il drammatico. All’inizio il film ha anche momenti comici, in cui il pubblico ride. Marcello è un po’ un nuovo Buster Keaton. Nella seconda parte il tono cambia. E se metti una scena comica in mezzo a due drammatiche, anche la scena comica scurisce».

Lei ama i cani?
«Molto. Sono cresciuto in mezzo ai boxer».

La madre del cattivo, Simone, il pugile, ha tentato invano di bloccare il film.
«Succede. L’ha fatto prima che il film uscisse. Ma Dogman ha pochissimo a che fare con la cronaca. Lo volevo girare dodici anni fa, poi ho rinunciato, ed è stato meglio così».

Perché?
«Non avrei trovato Marcello. E non ero padre, quindi non avrei potuto raccontare la sua storia d’amore con la figlia».

Nel film in effetti non c’è la tortura inflitta dal canaro al pugile che lo tormentava.
«Appunto. Chiunque può vedere Dogman, tranne forse gli appassionati dell’horror, che resteranno delusi. Si parla molto della storia, e si parla poco di come racconto la storia; come se si parlasse molto dei girasoli, e poco di come Van Gogh dipinge i girasoli. Più che a un vecchio fatto di cronaca, il film si ispira alle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, che considero il primo testo della letteratura moderna».

Cioè?
«Il protagonista, uomo incompleto e incompiuto, viene urtato per strada da un ufficiale, che non si scusa, forse neanche se ne accorge. Ma lui prepara la vendetta. A Cannes, non a caso, Dogman è piaciuto molto ai giornalisti russi. Non sempre il comportamento umano è dettato dalla razionalità; conta di più la spinta della propria natura. Marcello è fragile, ed è attratto dalla forza che a lui manca. Avverte la fascinazione per la violenza, e nello stesso tempo ne è spaventato. E sente la necessità di essere amato, di far parte di una comunità. Cerca di vivere in modo acrobatico, ma la situazione gli sfugge di mano, Sono archetipi. L’eterna lotta del debole contro il forte. Vicende universali. Elementi fiabeschi, come tutti i sentimenti spinti all’estremo. In Marcello c’è molto di me».

Anche lei è affascinato dal male?
«Anch’io ne sono affascinato e spaventato. La violenza fa parte della vita. Come la paura, che a volte viene strumentalizzata».

Dalla politica.
«Non mi faccia parlare di politica».

Il suo modello è Pasolini?
«Perché dice questo?».

Gli attori presi dalla strada.
«Ma la gran parte dei miei attori vengono dal teatro. E nel Racconto dei racconti dirigevo Vincent Cassel, una star internazionale. Capace di impersonare un cattivo senza rinunciare a far ridere, e senza diventare una macchietta».

Appunto: Il Racconto dei racconti richiama Il fiore delle mille e una notte di Pasolini.
«Una trilogia, con Il Decameron e I Racconti di Canterbury, che non ho amato».

Quindi Pasolini non rappresenta un riferimento per lei?
«Certo che lo è. Ma prima ancora citerei Rossellini. De Sica. Ferreri».

Quali sono i cinque film della sua vita?
«Il posto delle fragole di Bergman. Otto e mezzo di Fellini. Taxi driver di Scorsese. Andrei Rublev di Tarkovskij. Sherlock, Jr. di Buster Keaton».

Quanto conta per lei il sesso?
«Molto. Non solo l’amore, anche il desiderio, la carnalità, la ricerca del piacere e l’ossessione per il corpo fanno parte del mio cinema, fin da L’Imbalsamatore».

Qual è la storia della sua famiglia?
«Mio nonno paterno insegnava tecnica bancaria a Bari: suo padre Nicola era stato il fondatore della disciplina. Mio papà Nicola è stato un critico teatrale. Il nonno materno era un attore: Adriano Rimoldi, uno dei belli dell’era dei Telefoni Bianchi. Fece Addio giovinezza e I bambini ci guardano, il primo film di De Sica con Zavattini».

È vero che lei era un tennista?
«Sì. Ero metodico, tenevo un quaderno con le caratteristiche degli avversari e pure dei loro genitori, che li influenzavano. Avevo anche un certo talento, ma quando a 18 anni arrivai alla scuola di Nick Bollettieri incontrai tredicenni che già erano in classifica Atp. Capii che non era la mia strada».

Perché dagli anni Settanta non abbiamo un campione?
«Forse perché siamo troppo viziati».

Federer o Nadal?
«Conosce qualcuno che non direbbe Federer?».

Però Nadal è il più grande combattente della storia del tennis.
«Ma Federer è l’eleganza».

Poi è stato pittore, vero?
«Un po’ lo sono ancora. Il mio cinema racconta per immagini».

Sorrentino invece nasce scrittore. È vero che siete vicini di casa, a Roma in piazza Vittorio?
«Lo siamo stati. Torno comunque spesso in quella casa, a trovare mio figlio Nicola e sua madre Nunzia».

Siete rivali?
«In modo sportivo, agonistico, leale; ma non siamo avversari. Abbiamo un bel rapporto».

A Cannes era atteso lui, ed è arrivato lei.
«Diciamo che sono più underground. Low profile. Sono circondato da meno aspettative, quindi da meno pressioni».

Dove ha trovato le facce della scena in cui Marcello entra in carcere? Sembrano prese dalla Salita al Calvario di Bosch.
«È una scena girata a Rebibbia. Sono quasi tutti detenuti veri, con qualche comparsa».

È vero che ha vissuto sei mesi a Scampia prima di girare Gomorra?
«Sì, e ne ho tratto molte idee. Ad esempio la strage dei boss nel solarium, sotto le lampade abbronzanti. Non voglio raccontare dall’alto in basso, voglio vivere le vite degli altri. Come ho fatto con Marcello, passando molto tempo con lui».

A Scampia ha conosciuto Nunzia?
«Sì. Lei è l’ultima di otto figli. Si era legata a una famiglia circense: era domatrice di elefanti. Siamo separati, ma la sto aiutando a girare il suo primo film».

Che idea si è fatto dell’Italia?
«Non riesco a generalizzare. Ho incontrato tutto e il contrario di tutto».

Lei quest’anno, il 15 ottobre, compie cinquant’anni. È uno degli artisti più importanti che abbiamo. Si sarà fatto un’idea del suo Paese, di quel che sta diventando.
«Ogni storia è il tassello di un mosaico. Ma di tasselli ce ne sono milioni. Io porto il mio tassello; ma un film non esaurisce un discorso, restituisce un frammento del Paese e nello stesso tempo racconta una vicenda universale. I miei sono film istintivi, emotivi, di pancia. Se fossi tutta testa rischierei di fare la fine di Djokovic».

Il tennista, l’ex numero 1 del mondo?
«Lui. Scriveva libri sull’equilibrio interiore e poi invece s’è bloccato. Alla fine mi guarderò indietro e tenterò di capire se c’è un legame tra le cose che ho fatto».

Perché vuol cimentarsi con Pinocchio, su cui si sono schiantati in molti?
«Perché lo sogno da tutta la vita. A sei anni ho disegnato la mia prima striscia: era la storia di Pinocchio. Mi piace l’idea di fare film impossibili. Giro Pinocchio, poi cambio mestiere».

Pinocchio potrebbe essere Marcello Fonte?
«Non può essere un adulto. Dev’essere un bambino, anche se dovrà sottoporsi a due ore di trucco per diventare un burattino. Marcello potrebbe semmai fare Geppetto…».

8 giugno 2018 (modifica il 8 giugno 2018 | 08:02)
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