9 Recensioni su

Dogman

/ 20187.5343 voti

Mah… / 11 Settembre 2019 in Dogman

Devo dire che Garrone nella sua regia riesce a trasmettere quel senso di disagiato e di corrotto che abbiamo ben visto in altri suoi lavori.
Ma qui gioca sempre le stesse carte: traendo spunto da una vicenda e trasformandola un po’ ne esce un lavoro cupo e triste, come il nostro Marcello, che per guadagnarsi amicizia e accettazione pensa di fare la cosa giusta ma si mette contro tutti. Per poi finire solo anche solo dopo aver “rimediato” al danno. Facendone un altro contro se stesso.
Bello si, particolare per gli amanti del regista, ma colpisce solo per la sua cruda verità.
Forse un po’ troppo elogiato.
Per me è 5.

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Il degrado urbano e sociale / 22 Luglio 2019 in Dogman

Nel suo bel film M.Garrone riflette sul sul rapporto che c’è tra il degrado urbanistico e architettonico di una periferia abbandonata e il corrispettivo degrado degli uomini che la abitano e dei loro sentimenti. Ci fa capire che facendo vivere gli uomini come in una giungla in cui vige la legge del più forte alla fine si creano forzatamente dei fatti che colmano i vuoti dello stato di diritto, una regressione. Nel vuoto quindi sociale ed umano il protagonista, Marcello, interpretato magnificamente, il più debole ma forse anche il più umano in quella situazione, sottoposto a una violenza senza freni, maltrattato come nessuno, giunge alla conclusione che solo il delitto alla fine lo può liberare dalla sua situazione mancando ogni altra possibilità di riscatto. Ma nel finale il regista mostra che la vittima pur colpevole è pur sempre quella con una coscienza e invece di finire il delitto in modo da non avere guai ritorna invece verso la borgata che appare spettrale e abbandonata da ogni sentimento quasi a voler espiare la propria colpa ma pure condannare quella stessa società che l’ha generato.

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L’eterno fascino della storia di Davide e Golia. / 3 Aprile 2019 in Dogman

Sarà che sin da piccolo tifavo sempre per i più deboli, indifesi piccoli in due parole, perdenti , io ha amato questo film.
La ricetta, la storia non sono originali, ripropone lo scontro Davide e Golia mille volte già visto. Nella mia mente tornano veloci Tom e Gerry, Titti e Gatto Silvestro, Willie il coyote e quel Bip-bip, qua talmente sicura la vittoria di Davide che molti incominciano a stare per Golia.
Ebbene, qua io non sapevo la storia, ma a metà film aiutato anche dalla locandina ho capito la strda che avrebbe preso il film.
Mi sento quasi in colpa ad aver empatizzato con il canaro, ma è un personaggio così dolce, un piccolo bimbo al quale viene tolto tutto, ma quando perde il rispetto dei suoi amici allora non può star più fermo.
Quello che ho visto in questo film, che ho sempre visto nella storia di Davide e Golia è in realtà un messaggio forte: tutti gli uomini all’occorenza sono cattivi e violenti.
Non si scappa da qua, Davide sconfigge il gigante si con l’astuzia, ma lo uccide. Unico modo di sconfiggere la violenza è la violenza stessa.
Garrone interrompe questo filone, e fa vedere il rammarico dell’omicida, che si porta il peso fisico della colpa in giro, perso nel vuoto, un qualcosa si è rotto. La violenza lo ha liberato ma di nuovo reso prigioniero, in una spirale di pensieri e nella consapevolezza che quella era l’unica soluzione.
La storia sembra ambientata nel far west, c’è un qualche richiamo a Roma (più precisamente Ostia ormai ambientano tutto lì) ma come ho letto in altre recensioni è ambientato in un non luogo e in un non tempo. In questo far west come dicevo non c’è stato, non ci sono regole ma solo la dura legge umana retta dalla violenza, il sopruso dei più deboli da parte dei più forti. E in questa terra così cattiva non posso di nuovo far meno che stare per Davide.

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Storia universale / 29 Settembre 2018 in Dogman

Dogman, uscito qualche mese fa al cinema riprende la storia vera del er canaro della magliana (1988) ma non è una riproduzione pedissequa e didascalica della vicenda ma un cosa a sè stante, che prende spunto dalla realtà.
Il film non è ambientato nella fine degli anni 80 o nel quartiere della magliana: non ha una collocazione temporale o geografica precisa è come sospeso;
nessun riferimento agli anni 80 o ai giorni nostri:non ci sono i cellulari, vestiti dimessi, in questa periferia marina un misto di ostia e torbella senza essere nessuna delle due.
in questo grigio panorama ma non uggioso è come se la vicenda particolare possa rispecchiare un qualcosa di più ampio, inclusivo.
Ci sono due personaggi che si muovono e agiscono in maniera opposta in questo liquame: Marcello er canaro, persona buona, un bambino affettuoso con i più deboli (animali) e ben voluto da tutti e il pugile(interpretato da Pesce) l’esatto contrario che usa la sua forza fisica soggiogando e derubando chi è indifeso.
Per tutto il racconto er canaro è la vittima, infatti si empatizza con lui, mentre Pesce è il suo carnefice,che distrugge e si impone.
Un’escaletion di fatti porterà i due ruoli ad invertirsi: lo spettatore non può che trovare giuste le azioni scellerate del protagonista. Quindi Garrone giustifica l’omicidio?
Assolutamente no, anzi sceglie sapiente di non usare i dettagli più orrorifici della vicenda (che avrebbero fatto virare la pellicola sul pulp), non tratta dello scempio del corpo, perchè non è ciò di cui vuole parlare; la sua storia è metafora di altro dove spazio e tempo sono più che altro forme della mente.
Il pugile è stato un peso in vita per Marcello come lo è da morto, come nel poster quel masso enorme è trascinato da una piccola figura un odierna Davide contro Golia.
Secondo me il lungometraggio e’ metafora della nostra nazione, il popolo stanco di certi comportamenti sclera, ma anche se ci si ribella il macigno degli errori passati rimane da portare come cadavere morto, mentre ,come er canaro, gurdiamo in maniera malinconica e vacua questo mare grigio ma comunque infinito, aperto.
Così è anche la condizione di Garrone regista, che come anche ne “il racconto dei racconti” porta con sè il peso della sua italianità di un modo di pensare e culturale diverso,riuscendo allo stesso tempo ad essere internazionale nella fattura dell’opera (a differenza di molti film nostrani che quasi imitano l’america rinunciando alla loro identità ), ricucendo unendo, senza mai smettere di sperimentare: rileggeil passato creando qualcosa di nuovo.
Anche in questa storia c’è Roma, assente ma sempre presente, in un filo conduttore che parte dalla grande conla città eterna come protagonista, per poi passare Non essere cattivo (realismo romano), girando per suburra (qua una storia noir,un po’ sin city), infine il fumettoso Lo chiamavano Jeeg Robot e ora Dogman che è girato lì e richiama Roma senza che essa ne sia la protagonista ma sfondo lontano, solo richiamo al passato. L’urbe dove il cinema italiano è rinato ma dove rischiava di rimaner sempre collocato, con questo film, invece, abbiamo l’inizio del passare oltre ad essa con una storia così universale.

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Un quieto abbaiare / 20 Settembre 2018 in Dogman

C’è qualcosa che non mi ha convinto del tutto in questo Dogman. Diciamo che non mi è arrivato al cuore; mi è sembrato un ripescare un po’ automatico ai serbatoi di quell’ umanità da periferia sporca già compiutamente esplorati in Gomorra e Reality. La prova di Marcello Fonte, elogiata qua e là, mi è sembrata davvero troppo elementare per portarsi in spalla il film, mentre l’antagonista Edoardo Pesce è perfetto nella sua brutalità ottusa.

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Triste e malinconico / 4 Luglio 2018 in Dogman

Un film ovviamente drammatico, non ha pretese di fedeltà con i fatti del canaro dell’88, questi sono solo uno spunto. E’ pregno di tristezza dal’linizio alla fine, soprattutto malinconia alla fine, le scene drammatiche potevano essere pure peggio, grazie al regista che si è tenuto sul minimo sindacale della violenza.
Mi ha fatto venire la curiosità di approfondire la vicenda e soprattutto dalla visione di “Un giorno in pretura” mi sembrano evidenti alcune differenze rispetto alla vicenda, la vittima non è mai entrata nella gabbia dei cani, sia per un fatto fisico dimensionale sia per un problema di opportunità. L’assassino nel film viene visto come una persona quasi onesta e ingenua che viene coinvolta suo malgrado in azioni illegali, mentre mi sembra che in realtà doveva essere comunque una persona già schedata per vai reati. insomma uno avvezzo ad azioni illegali.

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Garrone – Dogman / 8 Giugno 2018 in Dogman

Mi sorprende sempre Garrone, sia nel bene che nel male. E questo che mi piace, lui non si è adagiato su i suoi allori, anzi non ha paura delle sue tensioni interiori e Dogman è così.
Una continua tensione interiore, piccoli accenni di comicità che stridano e ti lasciano quel sapore metallico del sangue in bocca. Non è violento, no per nulla, è cruento. I protagonisti sembrano i personaggi di Brutti, sporchi e cattivi, che sopravvivono a se stessi, una periferia che pare lontana, un non luogo, ma che diventa status simbol.
Una pellicola cupa, al limite del gotico urbano, nuovo realismo??
Garrone si ispira ad una vicenda vera, che all’epoca aveva riempito le pagine della cronaca dei quotidiani ma ne fa un film sull’animo umano.
Su quel passeggero oscuro che a volte ti ritrovi come compagno di vità.
Copio qui sotto la bella intervista al regista.

Matteo Garrone: «Il sesso e l’amore sono le mie ossessioni»
di Aldo Cazzulli

Il regista di Gomorra e Dogman, premiato a Cannes: «Desiderio, carnalità, ricerca del piacere contano molto per me». Il fascino della violenza: «Lo subisco, è parte della vita»

Matteo Garrone sta già girando un altro film: Pinocchio. Oggi sta facendo il provino per scegliere la Lumaca. Quella che fa aspettare Pinocchio nove ore, prima di aprirgli la porta: «Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta…». Passa Aniello Arena, il protagonista di Reality, che nell’ultimo film di Garrone, Dogman, ora al cinema, fa la parte del poliziotto.

Garrone scusi, ma Arena non era in galera?
«In effetti ha preso l’ergastolo per una vecchia storia, ma dopo vent’anni ora può uscire. Lavora qui, a Roma, agli Studios sulla Tiburtina. Porta le sedie, sposta i tavoli. Staccava un attimo per girare le sue scene di Dogman, poi tornava al lavoro».

In effetti come poliziotto è convincente.
«Se non lo sa fare lui, che con i poliziotti ha passato tutta la vita…».

Dove ha trovato invece Marcello Fonte, il protagonista di Dogman premiato come migliore attore a Cannes?
«Lui aveva già recitato. Viene dalla Calabria, da una famiglia contadina, poverissima. È arrivato a Roma a 18 anni, sognando lo spettacolo. Fa il custode del centro sociale Cinema Palazzo».

«Quand’ero piccolo sentivo le gocce di pioggia sulla lamiera e sognavo fossero applausi…». Un uomo dolcissimo.
«Ha una grande sensibilità e delicatezza, molto femminile. Infatti il pubblico femminile ha molta empatia con lui».
Come quando torna nella casa svaligiata per salvare il cagnolino che il complice ha chiuso nel freezer. O quando massaggia il molosso che mugola di soddisfazione.
«Non è un mugolio, è un rantolo. È un cane anziano. La scena doveva essere diversa: il padrone porta il cane per l’ultima volta da Marcello, prima di sopprimerlo; scoppia in lacrime, e Marcello lo consola. Ma non funzionava e l’abbiamo cambiata».

Perché?
«Perché non è facile contaminare i registri, dosare il comico e il drammatico. All’inizio il film ha anche momenti comici, in cui il pubblico ride. Marcello è un po’ un nuovo Buster Keaton. Nella seconda parte il tono cambia. E se metti una scena comica in mezzo a due drammatiche, anche la scena comica scurisce».

Lei ama i cani?
«Molto. Sono cresciuto in mezzo ai boxer».

La madre del cattivo, Simone, il pugile, ha tentato invano di bloccare il film.
«Succede. L’ha fatto prima che il film uscisse. Ma Dogman ha pochissimo a che fare con la cronaca. Lo volevo girare dodici anni fa, poi ho rinunciato, ed è stato meglio così».

Perché?
«Non avrei trovato Marcello. E non ero padre, quindi non avrei potuto raccontare la sua storia d’amore con la figlia».

Nel film in effetti non c’è la tortura inflitta dal canaro al pugile che lo tormentava.
«Appunto. Chiunque può vedere Dogman, tranne forse gli appassionati dell’horror, che resteranno delusi. Si parla molto della storia, e si parla poco di come racconto la storia; come se si parlasse molto dei girasoli, e poco di come Van Gogh dipinge i girasoli. Più che a un vecchio fatto di cronaca, il film si ispira alle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, che considero il primo testo della letteratura moderna».

Cioè?
«Il protagonista, uomo incompleto e incompiuto, viene urtato per strada da un ufficiale, che non si scusa, forse neanche se ne accorge. Ma lui prepara la vendetta. A Cannes, non a caso, Dogman è piaciuto molto ai giornalisti russi. Non sempre il comportamento umano è dettato dalla razionalità; conta di più la spinta della propria natura. Marcello è fragile, ed è attratto dalla forza che a lui manca. Avverte la fascinazione per la violenza, e nello stesso tempo ne è spaventato. E sente la necessità di essere amato, di far parte di una comunità. Cerca di vivere in modo acrobatico, ma la situazione gli sfugge di mano, Sono archetipi. L’eterna lotta del debole contro il forte. Vicende universali. Elementi fiabeschi, come tutti i sentimenti spinti all’estremo. In Marcello c’è molto di me».

Anche lei è affascinato dal male?
«Anch’io ne sono affascinato e spaventato. La violenza fa parte della vita. Come la paura, che a volte viene strumentalizzata».

Dalla politica.
«Non mi faccia parlare di politica».

Il suo modello è Pasolini?
«Perché dice questo?».

Gli attori presi dalla strada.
«Ma la gran parte dei miei attori vengono dal teatro. E nel Racconto dei racconti dirigevo Vincent Cassel, una star internazionale. Capace di impersonare un cattivo senza rinunciare a far ridere, e senza diventare una macchietta».

Appunto: Il Racconto dei racconti richiama Il fiore delle mille e una notte di Pasolini.
«Una trilogia, con Il Decameron e I Racconti di Canterbury, che non ho amato».

Quindi Pasolini non rappresenta un riferimento per lei?
«Certo che lo è. Ma prima ancora citerei Rossellini. De Sica. Ferreri».

Quali sono i cinque film della sua vita?
«Il posto delle fragole di Bergman. Otto e mezzo di Fellini. Taxi driver di Scorsese. Andrei Rublev di Tarkovskij. Sherlock, Jr. di Buster Keaton».

Quanto conta per lei il sesso?
«Molto. Non solo l’amore, anche il desiderio, la carnalità, la ricerca del piacere e l’ossessione per il corpo fanno parte del mio cinema, fin da L’Imbalsamatore».

Qual è la storia della sua famiglia?
«Mio nonno paterno insegnava tecnica bancaria a Bari: suo padre Nicola era stato il fondatore della disciplina. Mio papà Nicola è stato un critico teatrale. Il nonno materno era un attore: Adriano Rimoldi, uno dei belli dell’era dei Telefoni Bianchi. Fece Addio giovinezza e I bambini ci guardano, il primo film di De Sica con Zavattini».

È vero che lei era un tennista?
«Sì. Ero metodico, tenevo un quaderno con le caratteristiche degli avversari e pure dei loro genitori, che li influenzavano. Avevo anche un certo talento, ma quando a 18 anni arrivai alla scuola di Nick Bollettieri incontrai tredicenni che già erano in classifica Atp. Capii che non era la mia strada».

Perché dagli anni Settanta non abbiamo un campione?
«Forse perché siamo troppo viziati».

Federer o Nadal?
«Conosce qualcuno che non direbbe Federer?».

Però Nadal è il più grande combattente della storia del tennis.
«Ma Federer è l’eleganza».

Poi è stato pittore, vero?
«Un po’ lo sono ancora. Il mio cinema racconta per immagini».

Sorrentino invece nasce scrittore. È vero che siete vicini di casa, a Roma in piazza Vittorio?
«Lo siamo stati. Torno comunque spesso in quella casa, a trovare mio figlio Nicola e sua madre Nunzia».

Siete rivali?
«In modo sportivo, agonistico, leale; ma non siamo avversari. Abbiamo un bel rapporto».

A Cannes era atteso lui, ed è arrivato lei.
«Diciamo che sono più underground. Low profile. Sono circondato da meno aspettative, quindi da meno pressioni».

Dove ha trovato le facce della scena in cui Marcello entra in carcere? Sembrano prese dalla Salita al Calvario di Bosch.
«È una scena girata a Rebibbia. Sono quasi tutti detenuti veri, con qualche comparsa».

È vero che ha vissuto sei mesi a Scampia prima di girare Gomorra?
«Sì, e ne ho tratto molte idee. Ad esempio la strage dei boss nel solarium, sotto le lampade abbronzanti. Non voglio raccontare dall’alto in basso, voglio vivere le vite degli altri. Come ho fatto con Marcello, passando molto tempo con lui».

A Scampia ha conosciuto Nunzia?
«Sì. Lei è l’ultima di otto figli. Si era legata a una famiglia circense: era domatrice di elefanti. Siamo separati, ma la sto aiutando a girare il suo primo film».

Che idea si è fatto dell’Italia?
«Non riesco a generalizzare. Ho incontrato tutto e il contrario di tutto».

Lei quest’anno, il 15 ottobre, compie cinquant’anni. È uno degli artisti più importanti che abbiamo. Si sarà fatto un’idea del suo Paese, di quel che sta diventando.
«Ogni storia è il tassello di un mosaico. Ma di tasselli ce ne sono milioni. Io porto il mio tassello; ma un film non esaurisce un discorso, restituisce un frammento del Paese e nello stesso tempo racconta una vicenda universale. I miei sono film istintivi, emotivi, di pancia. Se fossi tutta testa rischierei di fare la fine di Djokovic».

Il tennista, l’ex numero 1 del mondo?
«Lui. Scriveva libri sull’equilibrio interiore e poi invece s’è bloccato. Alla fine mi guarderò indietro e tenterò di capire se c’è un legame tra le cose che ho fatto».

Perché vuol cimentarsi con Pinocchio, su cui si sono schiantati in molti?
«Perché lo sogno da tutta la vita. A sei anni ho disegnato la mia prima striscia: era la storia di Pinocchio. Mi piace l’idea di fare film impossibili. Giro Pinocchio, poi cambio mestiere».

Pinocchio potrebbe essere Marcello Fonte?
«Non può essere un adulto. Dev’essere un bambino, anche se dovrà sottoporsi a due ore di trucco per diventare un burattino. Marcello potrebbe semmai fare Geppetto…».

8 giugno 2018 (modifica il 8 giugno 2018 | 08:02)
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La terra di nessuno… / 28 Maggio 2018 in Dogman

Solo il più forte sopravvive.
E se per sopravvivere schiacci il più debole in questo mondo non è un problema.
Ma lo diventa per Marcello che, dopo l’ennesimo sopruso, decide di reagire. La sua reazione da prima voleva essere solo una richiesta di scuse ma poi degenera.
DOGMAN è la storia rivista del celebre CANARO degli anni fine ’80. Ma non fatevi ingannare perché la traccia è molto simile. Non aspettatevi (come invece ho sentito dire in giro) violenze e sevizie.
Questo film vuole raccontare la vita del quartiere vissuta da Marcello, proprietario di una toletta per cani (DOGMAN), e dell’amore che ha verso la figlia. Il rapporto con i vicini e soprattutto con Simone, un ex pugile, che dove passa distrugge senza sosta.
L’espressività di Marcello Fonte è talmente straordinaria che gli vale il premio per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes.
Vedere la sola scena di lui con la figlia sul traghetto al ritorno dall’immersione e assistere alla sua espressione che riflette cosa dovrà fare; nel suo silenzio si riesce a leggere tutto! FANTASTICO!
Un bellissimo film.
Violento ma intenso.
Ad maiora!

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Il peso della vendetta / 19 Maggio 2018 in Dogman

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Pur ambientando il suo nuovo film in un contesto contemporaneo e realistico, con Dogman Garrone non abbandona il mondo della fiaba nera che, da lungo tempo, caratterizza la sua filmografia, ricordandoci che questa forma di racconto non è mai morta e che, anzi, permea costantemente la quotidianità, esprimendosi con un senso dello straordinario mai uguale a se stesso.
Ciascun elemento formale scelto da Garrone di concerto con i professionisti del suo cast tecnico, dagli sceneggiatori (Chiti-Troli-Gaudioso) alla scenografa (Giovanna Cirianni), passando per la livida fotografia di Nicolai Brüel, concorre a delineare una situazione in bilico fra incubo fiabesco e realtà.
Il protagonista del film, Marcello (l’incredibile Marcello Fonte, davvero bravo), è un toelettatore di cani. Uomo semplice e timido che ama gli animali in maniera incondizionata, Marcello è padre amorevole di una bambina e lavoratore onesto. Minuto, dalla voce querula e il sorriso spesso incerto, vive temendo gli eccessi di Simone (Edoardo Pesce, spaventosamente credibile, nel suo aspetto animalesco), un delinquentello violento che tiene sotto scacco un intero quartiere.

Il contesto è quello di una periferia metropolitana estremamente degradata dal punto di vista urbanistico e sociale, un gigantesco abuso edilizio mai sanato. L’architettura del luogo è repulsiva e straniante, dominata da cemento armato in disfacimento e ipotesi di centri di aggregazione umana mai completati, come lo spaventoso parco giochi per i bambini e l’aborto di porticato commerciale dove Marcello ha il suo negozio.
Eppure, per il protagonista questo è un piccolo regno fatato di tranquillità, dove egli vive, rispettoso e amichevolmente rispettato da amici e clienti, e in cui cresce, apparentemente serena, la sua amata figlia.
Marcello è lieto di lavorare con i cani, che lui ama incondizionatamente, è un uomo semplice che si accontenta di vedere i frutti dei suoi sacrifici, che sembra non crucciarsi dell’evidente decadenza di quei luoghi, della mancanza di prospettive che quello squarcio di città sembra offrire, della desolazione morale di un microcosmo che, come una cittadina della vecchia frontiera americana, gravita stancamente intorno a un saloon (la sala slot), una banca (il “vendo oro”) e una strip (la strada che porta al mare), dove si mastica polvere e in cui la giustizia si accontenta di colpire solo chi ha paura di difendersi.
La sua attività commerciale ha un che di curioso, all’interno di tale contesto. Pur squallida e incolore, perfettamente allineata con l’aspetto e il respiro generale del luogo (e, perciò, totalmente integrata con esso, come se il posto avesse stabilito un indiscutibile ma univoco gergo estetico), la toelettatura per cani di Marcello regala idealmente un tocco glamour e insolito a un angolo del quartiere. Il suo negozio non è crocevia di denaro e di vizi: è un posto in cui le creature, umane e animali, sono rispettate, per chi gravita intorno al negozio c’è sempre una parola gentile (il vocabolo che Marcello ripete più spesso, durante tutto il film, è “amore”).

Marcello è un uomo del popolo, l’equivalente fiabesco del contadino, del vaccaro, del falegname che lavora indefesso, un giorno dopo l’altro. Non è estraneo al vizio, al crimine, ma è come se queste aberrazioni facessero intimamente parte della sua cultura, ma egli non sembra averne pienamente necessità, le asseconda in virtù del quieto vivere, di un certo senso dell’omologazione (che riallaccio all’uniformità estetica del luogo in cui vive).
Invece, Simone il picchiatore è l’orco, il gigante senza morale e ragione che, regolarmente, scende al villaggio per fare razzia, vessare, spaventare. Dimostra di non avere alcuna caratteristica intellettiva che vada al di là di una furbizia animalesca, da primate: usa solo la forza fisica. Non ha scopi, se non quelli di arraffare, strappare, mordere e, per fare ciò, imbroglia, mente, in maniera elementare e, in realtà, estremamente goffa.

Qui, le caratteristiche fisiche de L’imbalsamatore si ribaltano: il nano è buono, il gigante è mortifero. Ma quella che, in prima battuta, sembra una sfida di retta astuzia degna di Jack e il fagiolo magico si trasforma presto in una triste parabola sull’inefficacia della vendetta e finisce per assumere toni perfino evangelici, non solo dal punto di vista formale e simbolico.
L’immagine scelta per la locandina ufficiale del film riflette bene il messaggio di Garrone. Marcello è un uomo che porta con fatica ma in silenzio la sua croce. Ma tale croce non è rappresentata tanto dalle vessazioni di Simone, quanto dal peso dei terribili effetti dell’inutile vendetta di Marcello.

Con Dogman, Garrone ha aggiunto un nuovo, significativo tassello alla sua personale rappresentazione della tragedia umana fatta di senso del possesso, brama, obnubilamento della ragione, rappresentazione di sé/percezione degli altri, mutazioni (mentali e fisiche), follia. Primo amore, L’imbalsamatore, Gomorra, Reality, Il racconto dei racconti e, ora, Dogman sono tutte raffinate rappresentazioni della desolazione di un animo umano profondamente egoista e incapace di concepire gli effetti delle azioni pianificate e compiute.
In questo senso, mi piace intendere il cinema del regista romano come profondamente pessimista, ma il suo è un pessimismo che, puntualmente, mi affascina e turba.

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