Recensione su A casa tutti bene

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Stereotipi avvilenti e ansie davvero eccessive / 13 Gennaio 2019 in A casa tutti bene

Dopo la parentesi americana (di cui, finora, ho visto solo La ricerca della felicità), credevo che Gabriele Muccino fosse cresciuto, che, insomma, forte anche di un’esperienza in un contesto diverso, avesse maturato un modo di narrare differente da quello, parossistico, tipico dei suoi primi film (fra cui, peraltro, non mi dispiace mai rivedere Ricordati di me).
Invece, no.

Questo A casa tutti bene, ripropone tutti i cliché mucciniani, esasperandoli (se possibile) fino a svilirne anche gli aspetti potenzialmente più interessanti (vedi, il personaggio di Ghini e la sua malattia).
L’intera storia è afflitta da una cattiva scrittura, a tratti distratta, sicuramente carica di stereotipi un po’ avvilenti.
Il concetto di famiglia è sempre stato presente e fondante nel cinema di Muccino, ma qui, forse più che in altri casi, sembra solo un pretesto per sfornare l’ennesima pletora di “giovani” insoddisfatti della propria vita, esulando da una loro valida introspezione caratteriale e psicologica.
Tutti (anche i bambini) sono ansiosi, agitati, eccessivi, affaticati e affaticanti (manco una canzone di Battisti riescono a cantare senza farsi venire un accenno di sincope…), tanto da risultare antipatici anche quando dovrebbero muovere a empatia lo spettatore.
Gli attori (inutilmente troppi) sembrano caricati a molla per comportarsi in maniera nevrotica fin dalla prima sequenza in cui compaiono: delusione su molti fronti, da questo punto di vista.
Terribili i dialoghi, astratti, lontani, forzati, con morali fuori luogo e fuori tempo massimo (desolante la perla di presunta saggezza, immotivata, della Sandrelli alla figlia della nipote, mentre la saluta sulla porta di casa).

Aridateme i Parenti serpenti monicelliani, in cui i difetti della famiglia-media, ceste di corna comprese, sanno essere qualcosa di più della semplice (e, talvolta, involontariamente ridicola) messinscena di idiosincrasie varie. Qui, la famiglia non è tale: il legame di sangue che unisce fra loro alcuni dei personaggi è assolutamente aleatorio, privo di giustificazione, tutti sembrano estranei a chiunque, non c’è feeling, ma non c’è neanche competizione, non c’è niente che presupponga l’esistenza di questo nucleo (esploso). Soprattutto, in questo lavoro di Muccino non c’è la cattiveria necessaria per giudicare onestamente i propri personaggi e renderli (davvero) sensibili, cioè reali.
Perché, allora, scegliere (ancora una volta) questo contesto, per raccontare ‘sta benedetta sindrome di Peter Pan che affligge uomini e donne mal cresciuti e incapaci di guardare in faccia la realtà?

2 commenti

  1. Nadja / 7 Marzo 2019

    Muccino un mediocre, piccolo borghese che si sente sto ca**o

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