Recensione su Arca russa

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La commedia umana (e la farsa del popcorn) / 30 Giugno 2013 in Arca russa

Il geografo David Seamon ha coniato il concetto di “space ballet”, secondo cui le persone, attraverso i loro gesti quotidiani, imparano a conoscere i luoghi con i loro corpi, dando ad essi un ordine mentale e caricandoli di significati personali o collettivi. Ma in un bel film, “The year my voice broke”, si dice anche che i luoghi hanno la facoltà di assorbire l’energia delle persone che li hanno vissuti, immagazzinandola come dei serbatoi di emozioni e di ricordi.
Tempo e spazio appaiono dunque come quello che sono, ovvero due modi di definire la stessa cosa, la melassa in cui ci muoviamo e che non potremmo mai immaginare scissa in due tronconi ben separati.
Tutto questo è manifesto in Arca Russa, dove il regista, un Dante incorporeo accompagnato dal suo Virgilio francese, guida lo spettatore attraverso i secoli della storia russa, evocandola dalle pareti dell’Ermitage in un unico piano sequenza di un’ora e mezza circa. Ecco allora che la commedia umana prende vita, ognuno recita la sua parte in quanto attore di se stesso e allo stesso tempo personaggio storico. Ci accomuna il fatto di essere tutti sulla stessa barca della storia, ma ognuno è gettato nel suo tempo e si sceglie/è scelto (dal)la maschera che impersona.
C’è il tiranno, uomo mediocre come fu Nicola II, che cerca di costruirsi un’autorevolezza che non possiede, decidendo, da padre severo, chi delle figlie dev’essere punito e chi no, mandando i cosacchi a sparare sui facinorosi che reclamano i loro diritti, o circondandosi di frivole ed effimere presenze, cortigiani imbellettati che transitano sul palcoscenico del mondo, giusto il tempo per un giro di valzer, prima di essere inghiottiti dall’anonimato.
Sokurov si ferma qui, alla fine del secolo lungo e alle porte di quello corto, prima che la Rivoluzione stravolga tutto. Si ferma con una certa nostalgia per quell’Europa e quella Russia che sapevano godersi la vita con eleganza, un’eleganza che però apparteneva a una classe parassitaria che l’aveva costruita a baluardo della propria egemonia. Ma sull’ultima nota di valzer già si sente fischiare il vento e il battere sul portone di chi in quel palazzo, fino ad allora, non ha mai potuto metter piede. La festa, signori miei, è finita: al tiranno sta per cadere la testa.

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