Recensione su I sogni segreti di Walter Mitty

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sei e mezzo / 27 Dicembre 2013 in I sogni segreti di Walter Mitty

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Vedere Mitty e non pensare a Danny Kay è impossibile. Ma i sogni segreti di Walter Mitty sono così adattabili ad ogni epoca (tutto manca al mondo, ma non i sognatori), che il parallelo è ovviamente impossibile. Ed è impossibile perché non c’è nessun nesso, perché la storia sempre e comunque si modella sul presente di chi la racconta. Quindi questo film tutto può essere meno che un remake (Il Sogni proibiti del 1947 parlava di post seconda guerra mondiale e l’eroismo e l’avventura su quell’accadimento era modellata; ma soprattutto il Mitty degli anni quaranta era un giovane uomo castrato dalle donne del suo mondo, affascinato e impaurito dal femminile, i suoi sogni erano una rivolta contro una Giocasta ingombrante e il tentativo di crescere nel senso di maturare in senso virile, il sottotesto sessuale è la prima chiave di lettura).
Stiller quindi ci parla del qui ed ora, ossia della generazione mai sbocciata dei quarantenni, quelli che sono mediamente carini, mediamente aggiornati sull’oggi, mediamente occupati, mediamente innamorati, mediamente infelici. Mitty ha un lavoro grigio, ma con un senso di appartenenza, ma il mondo corre e le tecnologie/la crisi/il mercato gli rubano quel senso; Mitty non ha un amore, ma non è una tragedia, non è un problema enorme, è comunque infatuato di una donna, ma essendo il tempo di oggi tutto fa meno che incontrarla dal vero, c’è il social network no?; Mitty ha vissuto incastrato fra canzoni generazionali e quant’altro tanto che vuole un incontro non banalmente vero, ma “come quello di una canzone”; Mitty però ha una famiglia calda e accogliente, tutta al femminile, gli scontri generazionali sono roba d’antiquariato, la mamma fa le torte e questo è un valore imprescindibile (al netto delle burle); Mitty è un orfano, quello che avrebbe potuto fare non lo ha fatto perché la sua vita ha preso quella piega, ha subito una tragedia, non per inedia, ma per costrizione.
Quindi Mitty sogna, sogna con quella grandezza tipica dei quarantenni che hanno tecnologicamente vissuto l’impossibile delle avventure, sogna scollandosi dalla realtà che è quell’uguale camminare verso il lavoro una volta spento il pc.
E’ un film poetico e indulgente verso questa generazione, la prima dei demotivati (ma oddio, di fronte agli sdraiati di oggi i quarantenni sono quasi perfetti, tranne per il fatto di averli generati gli sdraiati di oggi). Racconta della rincorsa verso la figura paterna che è uno Sean Penn divertito, il padre putativo che esistendo (dove, come, quando non si sa, è appunto virtuale) lo spinge verso quell’avventura che non aveva potuto fare, una avventura follemente intrapresa con lo stessa leggerezza emotiva della sua adolescenza perduta per riappacificarsi con la rilevante realtà della bellezza delle cose poco eclatanti, della quotidianità delle partite di pallone sul tetto del mondo.
Tanto di cappello agli studios che riescono comunque a parlare della crisi in tempo reale (da noi si discute se si può oggi parlare dei nostri anni settanta, nessuno che abbia affrontato il Craxismo, l’unico film quasi instant, Il Gioiellino, è passato inosservato, se non ci pensa Moretti qui siamo alla frutta); troppo zuccheroso il ribadire continuo della bellezza dell’anacronismo che sia la pellicola o la torta; ma soprattutto a mio avviso davvero indulgente di fronte a questi quarantenni pienamente artefici della loro medietà, dell’inedia, dell’attesa, della paura.
Avendo a disposizione Life molto bella tutta la parte della ricerca dell’indizio attraverso le foto che sono schegge di persone/cose, quotidianità, sono la rappresentazione della vita di Mitty, ma lui non riesce a capirlo subito, contengono le immagini, che sono irrealistiche perché incapaci di essere la realtà e sono sogno comunque, il senso della vita segreta.
Bella la colonna sonora, io poi adoro Gonzalez

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