Noir bizzarro, oserei dire strambo, se tale aggettivo non rischiasse di denotarlo in maniera negativa: si tratta della prima prova (accreditata) alla regia del mitico Charles Laughton e il risultato è spiazzante, ricco com’è di un inaspettato fascino gotico.
Tutto, qui, eccelle, dagli attori alle scelte tecniche e narrative.
In un bianco e nero modulato da forti accenti espressionisti e protagonista di arditissimi movimenti di macchina (dal basso, dall’alto, a volo d’uccello) e di accorgimenti stilistici davvero particolari (fondamentale, in questo senso, l’uso delle silhouette o ombre cinesi), Robert Mitchum è un lupo cattivo da manuale che, secondo me, non ha anticipato solo il terribile Max Cady da lui interpretato ne Il promontorio della paura del ’62 e quello poi rielaborato da De Niro nel remake scorsesiano del 1991, ma anche la caratterizzazione da parte di Nicholson del Jack Torrance di Shining (in particolare, nella figura del predatore/del cacciatore di donne e bambini-l’hunter che compare nel titolo originale del film di Laughton- richiamata apertamente e in maniera folle nelle note scene finali del lungometraggio di Kubrick, tanto simili al breve assedio di Mitchum alla cantina dove sono nascosti i piccoli protagonisti e alla successiva caccia agli stessi): nei primi minuti del film il suo pericolosissimo predicatore rivela immediatamente la propria natura schizoide in un dialogo surreale con Dio, senza, per questo, depauperare di tensione il lungometraggio, anzi arricchendolo di una precisa nota morbosa.
La sua è un’ossessione di natura sessuale sublimata da quella religiosa (posticcia e funzionale alle sue azioni criminali: il reverendo Powell è assolutamente conscio del fatto che il suo conclamato fervore religioso è una giustificazione ai propri atti, nonché un’ottima copertura degli stessi), un velo che altri personaggi del film usano per giustificare determinate scelte, compresa la sfortunata Willa (Shelley Winters) che, in uno strano deliquio, decide scientemente di farsi martire. Strepitoso il richiamo preraffaellita nella scena, inusitatamente lunga, del rinvenimento del suo corpo, incastrato nell’auto, sul fondo del lago. Willa, la melusina, la fata dell’acqua, già un tutt’uno con gli organismi lacustri, forse costretta a rimanere laggiù fino alla fine del mondo.
Laughton manipola e trasforma gli elementi del thriller, declinando il genere con i toni dell’horror, inteso questo non come la classica “storia di paura” con fantasmi annessi: si tratta di un horror dal respiro vagamente europeo (vedi Lang), in cui la componente psicologica è fondamentale, moderno, spaventoso ma ironico, dissacratorio, precursore di certe riletture più recenti del genere (vedi, Craven).
Quello che, a tratti, sembra un racconto per bambini (le strane musiche originali, dai temi smaccatamente fanciulleschi, lo ricordano a più riprese) è, in realtà, la truce rappresentazione di un macabro fatto di cronaca ambientato in un contesto già di per sé orrorifico come quello della Grande Depressione.
Ciliegina sulla torta, la presenza di un vero monumento del cinema, Lillian Gish, musa di Griffith e volto iconico, insieme a Mary Pickford, dell’epoca del muto.
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