Qui non c’è il cielo / 7 Febbraio 2016 in Il figlio di Saul
Incubo, clangore, morte, ferro, fuoco, sfuoco. Auschwitz, ‘44. Uno degli ebrei scelti dai nazi come manodopera per perpetrare lo sterminio, detti sonderkommando, è ungherese e si chiama Saul. Insieme agli altri sonderk, accompagna i nuovi deportati alle docce, le ripulisce dei cadaveri, fruga nei loro vestiti rimasti fuori. Li butta nei forni, sparge la cenere nel fiume. Insomma, dai. Un lavoro di me**a. Ok, scusa. I sonderkommando sanno che dopo pochi mesi saranno terminati e sostituiti. Tra milioni, sceglie un cadavere, di un ragazzo sopravvissuto al gas e poi ucciso a mano da un medico, comunque interessato a vivisezionarlo. Il solito approccio analitico teutonico ai problemi. Quello è mio figlio, dice Saul agli altri, e cerca un rabbino per seppellirlo. Ovviamente, da contestualizzare alla situazione in cui si trova, ove tutto è assurdo al punto da lasciare increduli di fronte all’enormità del male, oltre l’umana comprensione; cui si aggiunge lo spento e sotterraneo senso di colpa di prigionieri costretti ad accompagnare altri alla morte. Nemes, conscio delle difficoltà del problema filmico e narrativo che si pone con un soggetto del genere, sceglie di affrontarlo lavorando sul fuori campo: la storia è intessuta di rumori pesanti e metallici, sforzi e fatica, ambienti sfocati sullo sfondo dove il peggio accade, e lì è normale, ed è normale perché è accaduto. Il caos e la paura sono intorno, Saul si muove con fare un po’ grullo nella catena industriale della morte, perseguendo uno scopo che è suo soltanto, a volte con gesti coraggiosi/incoscienti, altre spesso fermandosi a pensare nel bel mezzo del frenetico lavoro nei forni crematori. Per cui ci si aspetta sempre che arrivi un tetesko e gli spari un colpo in testa. La camera segue Saul, e gli altri personaggi, quasi sempre a mezzobusto, di corsa, a spalla, sulle spalle, sulla croce rossa che hanno i sonderk per essere identificabili e al contempo al centro del mirino nell’occhio dello spettatore. E rende il senso di paura, di ignoto, assenza di speranza e morte imminente, quello delle bestie al macello in attesa. Se non ora quando, a breve. Tantôt, direbbe un belga. Gli occhi bassi, ché il cielo è proibito. Il punto forse, oltre al cercare di rendere tale orrore, e le abiezioni e disperazioni di uomini sopravviventi per inerzia, è che lui sceglie, sceglie di provare a “salvare” un morto, non un vivo, andando oltre il concetto di “chi salva una vita salva l’umanità intera”, un simbolo, non è nemmeno suo figlio, Saul non ha figli. Attraversando una collezione di inferni, ma molto ben organizzata. Nel finale, durante una rivolta dei sonderkommando quando si accorgono che a essere stati gassati erano appena stati altri sonderk (accadde nell’ottobre del ‘44), riesce insieme ad altri a fuggire dal campo. Perde il cadavere del ragazzo, perde il rabbino che aveva trovato, e manco era rabbino. Vede un ragazzo, sorride, ed è ca**o ovviamente l’unico sorriso di tutto il film. E basta, le rivolte finiscono male, ad Auschwitz, nel ‘44.
Io non ho più lo stomaco per film così, genere “necessari”.

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