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Il figlio di Saul

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I sonderkommando dei lager nazisti, ovvero il dramma nel dramma dell’olocausto / 10 Gennaio 2017 in Il figlio di Saul

I film contemporanei hanno raggiunto un grado di rappresentazione della Shoah sempre più crudo e diretto, sempre più verosimile.
Il figlio di Saul catapulta letteralmente lo spettatore all’interno della drammatica esperienza dell’olocausto, grazie soprattutto alla modalità visiva prescelta da László Nemes, i continui piano sequenza che accompagnano ogni gesto del protagonista, con la macchina da presa che lo segue o lo precede a poco più di qualche palmo di distanza.
Un film che è un macigno psicologico, un pugno nello stomaco nel mostrare il livello di bestialità che può raggiungere la malvagità umana. I cadaveri dei prigionieri gassati diventano i “pezzi”, materiale da smaltire alla stregua di rifiuti.
L’utilizzo continuo dello sfocato, di diaframmi aperti che riducono la profondità di campo, isola il protagonista dall’orrore che lo circonda, con una duplice funzione di pudicizia (nell’evitare di eccedere nel mostrare ciò che è già abbastanza evidente) e di coinvolgimento dello spettatore nell’identificarsi in Saul.
Una pellicola di questo tipo non poteva stare in piedi senza una magistrale prova di attore, quella che fornisce il poeta Géza Röhrig, al suo più che eccellente debutto cinematografico.
I suoi occhi assenti e smarriti sono il più efficace specchio degli orrori dell’olocausto.
Pluripremiato a livello internazionale (Oscar e Golden Globe come miglior film straniero, Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes), Il figlio di Saul è destinato a rimanere come un’opera di primo piano nel panorama delle pellicole che trattano il dramma della Shoah.

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Qui non c’è il cielo / 7 Febbraio 2016 in Il figlio di Saul

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Incubo, clangore, morte, ferro, fuoco, sfuoco. Auschwitz, ‘44. Uno degli ebrei scelti dai nazi come manodopera per perpetrare lo sterminio, detti sonderkommando, è ungherese e si chiama Saul. Insieme agli altri sonderk, accompagna i nuovi deportati alle docce, le ripulisce dei cadaveri, fruga nei loro vestiti rimasti fuori. Li butta nei forni, sparge la cenere nel fiume. Insomma, dai. Un lavoro di me**a. Ok, scusa. I sonderkommando sanno che dopo pochi mesi saranno terminati e sostituiti. Tra milioni, sceglie un cadavere, di un ragazzo sopravvissuto al gas e poi ucciso a mano da un medico, comunque interessato a vivisezionarlo. Il solito approccio analitico teutonico ai problemi. Quello è mio figlio, dice Saul agli altri, e cerca un rabbino per seppellirlo. Ovviamente, da contestualizzare alla situazione in cui si trova, ove tutto è assurdo al punto da lasciare increduli di fronte all’enormità del male, oltre l’umana comprensione; cui si aggiunge lo spento e sotterraneo senso di colpa di prigionieri costretti ad accompagnare altri alla morte. Nemes, conscio delle difficoltà del problema filmico e narrativo che si pone con un soggetto del genere, sceglie di affrontarlo lavorando sul fuori campo: la storia è intessuta di rumori pesanti e metallici, sforzi e fatica, ambienti sfocati sullo sfondo dove il peggio accade, e lì è normale, ed è normale perché è accaduto. Il caos e la paura sono intorno, Saul si muove con fare un po’ grullo nella catena industriale della morte, perseguendo uno scopo che è suo soltanto, a volte con gesti coraggiosi/incoscienti, altre spesso fermandosi a pensare nel bel mezzo del frenetico lavoro nei forni crematori. Per cui ci si aspetta sempre che arrivi un tetesko e gli spari un colpo in testa. La camera segue Saul, e gli altri personaggi, quasi sempre a mezzobusto, di corsa, a spalla, sulle spalle, sulla croce rossa che hanno i sonderk per essere identificabili e al contempo al centro del mirino nell’occhio dello spettatore. E rende il senso di paura, di ignoto, assenza di speranza e morte imminente, quello delle bestie al macello in attesa. Se non ora quando, a breve. Tantôt, direbbe un belga. Gli occhi bassi, ché il cielo è proibito. Il punto forse, oltre al cercare di rendere tale orrore, e le abiezioni e disperazioni di uomini sopravviventi per inerzia, è che lui sceglie, sceglie di provare a “salvare” un morto, non un vivo, andando oltre il concetto di “chi salva una vita salva l’umanità intera”, un simbolo, non è nemmeno suo figlio, Saul non ha figli. Attraversando una collezione di inferni, ma molto ben organizzata. Nel finale, durante una rivolta dei sonderkommando quando si accorgono che a essere stati gassati erano appena stati altri sonderk (accadde nell’ottobre del ‘44), riesce insieme ad altri a fuggire dal campo. Perde il cadavere del ragazzo, perde il rabbino che aveva trovato, e manco era rabbino. Vede un ragazzo, sorride, ed è ca**o ovviamente l’unico sorriso di tutto il film. E basta, le rivolte finiscono male, ad Auschwitz, nel ‘44.
Io non ho più lo stomaco per film così, genere “necessari”.

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Orrore e noia. Anzi: noia, e poi orrore. / 14 Giugno 2015 in Il figlio di Saul

Saul, ebreo prigioniero a Auschwitz, è impiegato nei Sonderkommando, il reparto di ebrei obbligati a collaborare con le SS alla cremazione degli altri prigionieri. Sullo sfondo della rivolta di questi Sonderkommando, Saul attraversa il campo alla disperata ricerca di un rabbino che dia degna sepoltura a un ragazzino, che Saul crede (o vuole considerare) essere suo figlio.
Girato in 4:3, in lunghi piani sequenza, in tempo reale, e in costante falsa soggettiva dall’esordiente alla regia László Nemes, che avrà avuto sicuramente i suoi validissimi (anche se non sempre originalissimi motivi per adottare ognuna delle tecniche suddette, alcune delle quali adottate come dichiarazione di indifferenza verso lo spettatore. Il 4:3 con il primo piano del protagonista sempre presente è un formato ansiogeno, perché tutto può succedere (o sta succedendo) e lo spettatore non riesce a vederlo. Lo spettatore vorrebbe guardare, capire, empatizzare, ma gliene viene negata la possibilità. La falsa soggettiva è particolarmente meschina, in questo senso: la macchina da presa inquadra sempre Saul in primo piano, di fronte o di nuca, e raramente inquadra il resto, ciò che Saul vede e lo spettatore no. Da un lato indica che a Saul non interessa ciò che accade lì attorno, lui è ostinatamente concentrato sulla ricerca di un rabbino. Dall’altro lato lo spettatore pensa che sia stupido mettersi a cercare un rabbino per un inutile rito funebre, quando lì attorno si manifesta l’Inferno nella sua più realistica approssimazione mai sperimentata. E è questo che allo spettatore interessa, ma non lo può vedere, o lo vede sfocato, o lo sente e basta, e in ogni caso non può concentrarcisi, perché davanti c’è Saul spiritato che chiede del suo fottuto rabbino.
Tutta la riflessione e l’atto di perpetuazione della memoria che i film sulla Shoah sempre si propongono di suscitare, Nemes li pospone a dopo la visione del film. Durante il film non siamo i benvenuti, non è richiesta la nostra complicità, né il nostro moto d’attivismo civile. Farsi piacere questo film è l’illusione di stare dalla parte di Saul, che è invece un demonio ansioso di seppellire quel ragazzino, l’ultimo brandello di carne che lo legava al consorzio umano, per potersene finalmente andare e con la maledizione di Dio e la nostra (altro che empatia). La sua inquadratura finale, quando la camera finalmente lo abbandona anch’essa, io la interpreto così. Dopo, a film finito, agli spettatori rimane nel naso l’odore dei cadaveri ammassati, e riparte la riflessione sull’orrore. Ma durante il film, che ha richiesto uno sforzo tecnico e una tenacia artistica inauditi e ammirevoli per tenersi indifferente a noi e riuscire così a raccontare in un modo formalmente nuovo la Shoah, durante il film io mi sono sentito rifiutato, ho persino smesso di considerarlo un film sulla Shoah, e in definitiva mi sono soltanto annoiato.

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