Recensione su Lo chiamavano Jeeg Robot

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Un coraggioso salto nel vuoto / 23 Febbraio 2016 in Lo chiamavano Jeeg Robot

Fa piacere vedere nel primo lungometraggio di Gabriele Mainetti la riuscita di un evidente sforzo messo in atto per rinfrescare un versante consolidato della cinematografia italiana come il “romanzo criminale”: Lo chiamavano Jeeg Robot, infatti, è un felice connubio tra suggestioni cinefile e cultura popolare che spazia dal dramma sociale al film d’azione con buona soluzione di continuità e che spende bene anche le carte dell’ironia e del divertimento di derivazione fumettistica, trovando nei suoi attori protagonisti, Santamaria e Marinelli, maschere ed incarnazioni efficacissime.

Come i precedenti e noti cortometraggi di Mainetti, Basette (2008) e Tiger Boy (2012), anche questo lavoro attinge a piene mani da un contesto culturale estremamente familiare al regista (classe 1976) e al pubblico di coetanei (o giù di lì) a cui evidentemente si rivolge in prima battuta: basti pensare semplicemente al titolo del film, che, oltre alla creatura partorita dal mangaka Go Nagai e diventata un must dei bambini italiani cresciuti nei primi anni Ottanta, riprende classici del cinema d’intrattenimento nostrano con Bud Spencer e Terence Hill, come Lo chiamavano Bulldozer o Lo chiamavano Trinità.
La bravura di Mainetti, però, sta nel non essere inciampato nel mero amarcord: dosando adeguatamente i numerosi riferimenti ad un preciso segmento (anagrafico) della cultura pop (musica, cinema, fumetti, cartoni animati di circa trent’anni fa) e facendo in modo che essi, pur evidenti, non risultino l’unica chiave di lettura del film, la sceneggiatura si presta ad essere apprezzata da un pubblico decisamente variegato e non necessariamente avvezzo a tutti i numerosi riferimenti contenuti nella pellicola.

Lo chiamavano Jeeg Robot non è esente da difetti, non tanto a livello tecnico, invero dignitoso, quanto narrativi (le connessioni tra lo Zingaro, la ‘ndrangheta e gli attentati dinamitardi navigano a lungo tra il fumoso e il labile, mentre il finale “a singhiozzo” spezza un po’ il ritmo del racconto), eppure il risultato complessivo è decisamente godibile e apre interessanti scenari sulla capacità del cinema italiano di gestire con originalità temi e generi (es. il supereroismo, l’azione tout court, ecc.) solitamente evitati dalle produzioni nostrane.
Il film di Mainetti è (ardisco) un lavoro coraggioso, perché flette i muscoli e fa un vero e proprio salto nel vuoto (chi vuol cogliere, colga), offrendosi ad un pubblico, quello italiano, decisamente esigente dal punto di vista dell’intrattenimento “trasversale”, soprattutto se questo arriva dall’Italia stessa, e ritengo che il suo sia un tentativo da premiare.
In questo senso, il romanesco me fa piegà, però mi rendo conto che, a tratti, il suo uso reiterato (benché funzionale a creare lo straniamento dato dalla presenza di un supereroe “all’americana” in una borgata romana) potrebbe rappresentare un limite proprio in relazione alle esigenze di una platea che, spesso, si mostra infastidita dai localismi.

Nota: nella sequenza finale, compare la voce di Adriano Giannini. Benché non ne apprezzi le doti di doppiatore, l’iperbole è gustosa, perché, nella versione italiana de Il cavaliere oscuro di Nolan, lui ha doppiato il Joker, mentre Claudio Santamaria ha dato la propria voce a Batman. Giusto per dire quanto e come Mainetti, con i mezzi a propria disposizione, si sia divertito a pescare a piene mani da un universo a lui congeniale, riuscendo a confezionare davvero un buon film.

3 commenti

  1. paolodelventosoest / 23 Febbraio 2016

    Mi interessa parecchio, da quando ne ho sentito la critica entusiasta di Francesco Alò (p.s. a proposito, ma tu che sei romanaccia e mastichi gli ambienti della settima arte, lo hai conosciuto Alò?)

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