Recensione su La classe operaia va in paradiso

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La classe operaia va in paradiso
Regia:

Te lo do io il socialismo / 14 Novembre 2013 in La classe operaia va in paradiso

Il cinema di Petri non è cinema sociale alla Loach, non è il cinema socialista alla maniera di Bertolucci. E’ cupo realismo. Gli operai di Petri sono sballottati tra il parùn e i sindacati, sono una massa e contano solo in quanto “classe sociale”. L’amara solitudine del crumiro pentito Volonté è il premio per aver fatto un passo verso quei megafoni, un passo troppo deciso che mina il “comodo” contrappeso dell’unità sindacale. Petri viene perfino accusato di essere un reazionario, nella folle bolgia degli ideologismi, ma è stata una voce fuori dal coro e dalle barricate.
Quanto al cinema, quello “tecnico”; questo film vanta momenti indimenticabili, su tutti l’amplesso verista e goffo nella Seicento e il dialogo dentro le mura del manicomio tra il protagonista ed un vecchio ex-operaio internato, un magnifico Randone.
E’ un film urlato, rumoroso, spesso molto buio, con interni di vivida luce azzurrina catodica mentre si ode in sottofondo la mitica voce di Mike Bongiorno. I primi piani di Petri sono perfino invadenti, impietosi; c’è una ricercatezza scabrosa nei primi piani a Volonté, un rossore del volto butterato che conferisce aggressività alla recitazione sempre oltre le righe dell’attore. In altre occasioni, vedasi i film di Leone, non apprezzai questi isterismi ritenendoli eccessivi; qui invece rasenta la perfezione, col suo accento milanese e il suo bofonchiare un po’ pirlone, misantropo e misogino.

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