Recensione su Il ragazzo e l'airone

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28 Febbraio 2024

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Quando nel 2013 Miyazaki aveva girato quello che doveva essere il suo ultimo film, “Si alza il vento”, aveva detto di essersi ispirato a un verso di Valéry che recitava: “Il vento si è levato. Bisogna tentare di vivere”. A distanza di dieci anni deve essersi accorto che gli mancava da approfondire la seconda parte di quel verso e il risultato è un film che – è bene notare – nella sua versione originale si intitola “E voi come vivrete?”.
Da una parte il “Il ragazzo e l’airone” è una variante dei temi tipici della poetica di Miyazaki, dall’altra stupisce per una complessità simbolica più marcata del solito e per l’effetto perturbante che produce. Se solitamente la poetica di Miyazaki è attraversata da un movimento verticale verso l’alto, suscitando un senso di leggerezza e libertà nello spettatore, stavolta le vicende del giovane Mahito sembrano portarci nella direzione opposta, dobbiamo seguirlo in un viaggio verso il basso, verso gli inferi. Stavolta la soglia per il passaggio verso l’altra dimensione è rappresentato da una torre, sulla quale spicca non a caso la citazione dantesca “fecemi la divina potestate”. Come Dante, anche Mahito deve compiere un viaggio per superare la selva oscura nella quale si è persa la sua anima: il trauma della morte della madre gli impedisce di aprirsi agli altri e il simbolo di questa rabbia e diffidenza che gli cova dentro diventa la cicatrice che porta sulla fronte, segno di una ferita che si è inflitto da solo. Come Dante, Mahito non potrebbe compiere questo viaggio senza l’aiuto di diverse guide, innanzitutto un airone che lo spinge a varcare la soglia verso l’altro mondo. Lo spettatore si perde con Mahito lungo una foresta intricata di simboli, che somiglia a un labirinto che genera spaesamento, confusione e a volte anche angoscia: i disegni ingannevolmente innocenti accentuano la drammaticità di alcune creature, come i parrocchetti fascisti o i pellicani che si nutrono di anime che vorrebbero nascere (ma non riescono, perché là fuori c’è la guerra). Ecco allora che il segreto per godersi il film è lasciarsi andare, evitando di voler decifrare dal punto di vista simbolico o morale i vari momenti e personaggi. Usciti dal labirinto, il finale svela un messaggio molto semplice e si scopre che Miyazaki ha voluto tornare a girare un ultimo(?) film solo per poter dire ai giovani che, nonostante tutto, è bello essere vivi. Un film che fino alla fine sembrava essere di natura psicologica, svela un messaggio politico rivolte alle nuove generazioni: Mahito rifiuta l’eredità del prozio (=Miyazaki l’artista), rifiuta di chiudersi all’interno di una torre a costruire mondi con l’immaginazione, e accetta di tornare a vivere nel mondo reale, ad affrontare l’imperfezione, il dolore, la vita.
Insomma un’opera potente dal punto di vista visivo e poetica nei contenuti, ma che ho visto con più fatica del solito e non mi ha offerto quel senso di leggerezza che ho amato trovare nelle opere precedenti.

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