Recensione su Il mondo di Apu

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La priorità dell’immanenza / 26 Maggio 2019 in Il mondo di Apu

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Terzo film della trilogia di Apu, ricavata dai romanzi autobiografici di Bibhutibhushan Bandyopadhyay. Dopo l’accorata descrizione dell’infanzia de Il lamento sul sentiero e dell’adolescenza de L’invitto, la trilogia si conclude con l’età adulta del suo protagonista. Il giovane laureato in scienze ha ereditato dal padre la passione per la scrittura, vive in modeste condizioni e sembra inadatto al pragmatismo del lavoro e del guadagno. Si ritrova sposato inaspettatamente quasi per caso.
La narrazione risente dell’influenza del realismo poetico francese e del neorealismo italiano ma la forma raffinata e minimalista, lo studio geometrico delle inquadrature la avvicinano di più al cinema di Mizoguchi. Come per le precedenti parti della trilogia, preziosissimi risultano gli apporti di Subrata Mitra per la fotografia e di Ravi Shankar per la musica.
La qualità espressiva e recitativa degli attori non lascia indifferenti, così come nei primi due film. Indimenticabili per la capacità di rappresentare con forza poetica e pathos emotivo i temi universali e i sentimenti, alcune scene come la discussione della coppia, dopo la cerimonia di nozze; l’entrata in casa della sposa; il pugno scagliato da Apu all’incolpevole messaggero della notizia del lutto; le scene finali dell’incontro e della riconciliazione col figlio.
Sebbene protagonista qui e in tutto il cinema di Ray sia l’India, la terra dove hanno origine tutti i culti, sia tradizionali che postmoderni, non vi è traccia di trascendenza. L’umanità che viene descritta, con sguardo pieno di compassione, è di un modernissimo ed esemplare laicismo. Apu dopo la morte della giovane moglie vagabonda tra i boschi non come un mistico illuminato o un asceta, benchè ne ricalchi l’aspetto, ma come un uomo come chiunque altro pieno di difetti, che si arrangia in umili lavori materiali necessari alla sopravvivenza. Abbandona la scrittura proprio perchè troppo spirituale, lontana dalla vita e dal suo dolore.
Recuperare la lezione di Satyajit Ray è importante, in questa profusione di superpoteri e immaginifiche visioni, in questo periodo di folle pastiche mistico e spiritualistico, dove l’India, e l’Oriente in genere, diventano il terreno congeniale per il distacco dalla realtà immanente o l’adesione alle teorie pseudoscientifiche, come nel discutibile I Origins.

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