Recensione su The Way Back

/ 20117.0115 voti
The Way Back
Regia:

L’inconfondibile cifra di Peter / 10 Agosto 2012 in The Way Back

Che The Way Back sia un film di Peter Weir è indubitabile, e non certo perché ce lo dicono i titoli di apertura, ma per quella capacità tutta sua di saper ritrarre gli spazi (1) e le atmosfere sospese (2).

Fin dai (meravigliosi) tempi di Picnic a Hanging Rock e L’ultima onda ciò che è il vero tema del film appare subito, in una splendida quanto perfetta “gestalt” a pochi istanti dall’inizio: l’inquadratura delle montagne siberiane: infinite, chiuse, nevose, argentee, inequivocabilmente, incredibilmente, assolutamente silenti… [servirà far notare che, in tutti e tre i titoli, la fotografia è sempre quella di Russell Boyd?]

La stessa chiara cifra rimane certamente lungo tutto il film, in molte altre inquadrature dei grandi spazi che questi 7 uomini attraverseranno per riprendersi quella libertà che gli è stata tolta – per lo più a torto. Ma via via che il film scorre, dopo che le prime scene ambientate nel gulag sono alle spalle, ciò che comincia a imporsi è quella sensazione di “realtà sospesa”. Apparentemente ben mascherata dietro la ferrea motivazione della meta a cui i 7 puntano, in verità il senso del viaggio si dispiega proprio in quel “durante” di cui nessuno sembra occuparsi [è curioso rilevare che ci vorrà l’arrivo di una donna per reintrodurre il senso della storia in quanto tale: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo… e ancora più interessante dal punto di vista narrativo sarebbe sapere se si tratti di un elemento di fiction o se sia uno degli elementi reali degli eventi a cui la storia si ispira].

E fin qui c’è tutto il bello e l’unico del cinema di Peter Weir, ma (a differenza) non penserei mai a questo film come a un film che emoziona, sebbene ci siano momenti di tensione e pathos, soprattutto nelle prime scene in cui viene ritratta la realtà del Gulag – ben girate, anche se non eccezionalmente originali in termini di stilemi di genere. Pochi di noi probabilmente non si sono già dovuti confrontare con immagini altrettanto provocatorie della nostra sensibilità di essere umani.

The Way Back, allora, è un film in cui perdersi, e immergersi, in cui lasciare andare i confini: dello spazio, del tempo, dell’identità, dei perché logici e inquisitori, che forse finirebbero poi per evidenziare troppo alcune improbabilità del racconto che viene proposto come “ispirato a una storia vera”.

E’ bello ritrovarti, Peter, e ritrovare quella voglia che possiedi di inquisire sul mondo, sulla natura e sull’essere umano, ma non posso non dire che questa volta, in questa pellicola, mi è mancato qualcosa: dettagli, forse, più dettagli e più vita, più reattività agli estremi, più “carne” (e non mi riferisco certo alla truculenza), perché sebbene minuscolo nel grande panorama cosmico, l’uomo entra fortemente in collisione con la natura quando ci si trova faccia a faccia, senza mezzi termini, e senza le sofisticazioni dell’era contemporanea.

Come hanno detto in molti, quindi, sì, è vero, The Way Back è certamente più epico, che realistico (a dispetto dell’additata origine) e, come vuole l’epica, si è limitato a “cantare” l’impresa di un gruppo di “eroi” (di coraggiosi), elogiandone l’idea stessa, e il coraggio di metterla in pratica, la volitività, la perseveranza [“Just keep walking”] e la scelta del “tutto per tutto” ma anche, forzatamente, come vuole questo genere narrativo, depurandola del “sangue”, del dramma, del dolore, delle domande senza risposta, degli istinti più biechi, degli istinti più naturali e più profondi, della lotta, interna ed esterna: con sé stessi, con gli altri, con le altre specie viventi, con il sole e con la pioggia, con il giorno e con la notte…

Cartoline, Peter, splendide, bellissime, ma cartoline… ora mi fai vedere anche il resto?

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