Recensione su Women Talking - Il diritto di scegliere

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L’operazione è perfettamente riuscita, il paziente è morto (di noia) / 3 Aprile 2024 in Women Talking - Il diritto di scegliere

Women Talking (mai titolo è stato più fedele) è un’operazione più ambiziosa di quello che potrebbe suggerire la trama: non è un film sulla ribellione di un gruppo di donne che hanno subìto violenza, ma vorrebbe essere la descrizione di un processo di elaborazione dell’idea di libertà, della possibilità di prendere una decisione. Un’operazione insomma di tipo psicanalitico, basata sulla fiducia nella potenza emancipatrice (in senso terapeutico e anche politico) della parola. L’idea che sembra muovere del film – esplicitata dal titolo – mi sembra essere che la parola, in quanto azione che riflette sull’azione da compiere, insomma in quanto meta-azione, sia ciò che definisce ontologicamente il femminile, in contrapposizione all’azione maschile che si relazione all’altro da sé oggettivandolo, cioè annullandolo-narcotizzandolo allo scopo di sottometterlo. Questa contrapposizione è espressa anche in senso spaziale, attraverso l’opposizione tra dentro e fuori: il fienile vuole rappresentare uno spazio che sia ontologicamente femminile, spazio di libertà e di intimità, insomma di condivisione di sentimenti, ferite legate al proprio passato e desideri rivolti al futuro; il mondo esterno è invece ostile perché astratto, nello spazio (siamo in un qualsiasi luogo dell’America profonda) come nel tempo (a un certo punto passa nelle vicinanze un furgone per rivelare allo spettatore che è il 2010 e creare un effetto di spiazzamento), perché vuole rappresentare il sistema patriarcale che si estende e si perpetua ovunque e sempre uguale. Tuttavia la riduzione della libertà e della potenza del femminile alla dimensione della parola e dunque dell’interiorità mi sembra non solo una scelta riduttiva dal punto di vista teorico, ma anche suicida dal punto di vista dell’efficacia narrativa. Nonostante per un’ora e mezza non si faccia altro che assistere a un lungo confronto dialettico, ciò che paradossalmente manca al film è proprio la forza dialettica: quella fra parola (onnipresente, logorroica e spesso retorica) e l’azione (sempre evocata, mai presente) e dunque fra femminile e maschile. L’elemento maschile è completamente eliminato, in quanto rappresentato solo da August, ossia da un personaggio che incarna esplicitamente il rovesciamento dell’immagine della mascolinità che potrebbe provocare un contrasto, infatti si lascia zittire e sottomettere e ammette che lui, in quanto uomo, non ha il diritto di parlare: insomma sembra che il femminile possa esprimersi solo laddove narcotizza l’elemento maschile, non lasciando che compaia o che si esprima, impedendo un confronto, sia nella forma del riconoscimento che in quella del contrasto. In questo modo il film, pur pregevole dal punto di vista tecnico, si trasforma nella rappresentazione di una lunga seduta psicanalitica, svuotando la storia della sua forza narrativa e anche politica: insomma l’operazione è perfettamente riuscita, il paziente è morto (di noia).

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