Il documentario recitato / 24 Febbraio 2016 in Sacro GRA
Quale poesia potrà mai esserci in un alveare di vite che gravita attorno al grande raccordo anulare? Ambulanze, cubiste, pescatori del Tevere e attoruncoli da fotoromanzo, interni di case popolari e suite barocche, piazzaloni di periferia dove il pomeriggio ballano gli ecuadoriani e porchetterie ambulanti.
Eppure c’è, anche Fellini aveva intuito l’enorme potenziale poetico del kitsch, del freak, del popolano; Rosi ne ripercorre la strada con un mezzo molto diverso, quello del documentario recitato. Un sottogenere rischioso, perchè gioca con il fragilissimo equilibrio tra documentario e finzione mettendo a rischio la propria credibilità.
Qui non si tratta di dire “è tutto vero” o “è tutto finto”; si tratta di dire “è raccontato bene” o “è raccontato male”. Onde, per un inspiegabile paradosso, l’impersonificazione un po’ forzata e innaturale di sè stessi e della propria vita reale rischia di essere meno tollerabile della peggior menzogna scenica.
Così come il dramma – vero, tangibilmente vero – dell’operatore di ambulanza con la madre malata di Alzheimer risulta un po’ sgualcito da un vago sentore di “mo’ ce metto passione”, allo stesso modo il fascino un po’ braminico che emana il padre con squisita parlata piemontese coabitante con la figlia sempre al computer, riesce ad avvolgere magicamente anche quando raccoglie l’acqua piovana o si toglie le braghe.
Rosi maneggia questo materiale umano apparentemente senza gli elementari accorgimenti della fiction (l’uomo delle palme oggettivamente non funziona, è noiosetto e sembra perfino ricevere i suggerimenti in cuffia; eppure c’è), ne emerge un quadro disarmonico con alcuni spunti indovinati.
