Che cult! / 20 Settembre 2020 in Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno

Ogni tanto me lo rivedo perché Scorsese è partito alla grande da subito!
Bellissima la Little Italy degli anni 70, con New York torbida e puzzolente ma che mantiene un gran fascino.
Grande Keitel, giovane e bello quanto De Niro, nel suo Johnny Boy che ci da un anticipo dei suoi ruoli più belli.
Questi sono i film che non dovrebbero mai scomparire dalla circolazione!
8!!!!!!

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14 Agosto 2017 in Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno

Gangster movie anni ’70 / 22 Novembre 2016 in Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno

Uno Scorsese acerbo ma già affilatissimo getta qui le basi di una carriera sfolgorante che molto deve alla sua naturale propensione per i gangster movies. Una scrittura perfetta e inquadrature con una impronta sempre molto personale, mai scontata, incorniciano la bella prova del protagonista Harey Keitel e la prima, vera, grande interpretazione di Robert De Niro (il suo scanzonato Johnny Boy arriva quasi a competere col futuro Travis Bickle). E’ bello vedere condensata nella scena al cinema la sua gratitudine attraverso piccole citazioni cinematografiche (alcuni shots de La tomba di Ligeia del suo nume tutelare Roger Corman; la locandina di “Mariti” di John Cassavetes che lo convinse a lasciare i lavori facili dell’exploitation per intraprendere la strada del grande cinema).

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Il fiore all’occhiello della ‘New Hollywood’… / 4 Ottobre 2014 in Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno

Audace, sfrontato, nuovo. Nell’anno di grazia 1973, un giovane regista di talento, italoamericano, Martin Scorsese, con all’attivo appena due lungometraggi, peraltro discreti, scrive e dirige “Mean Streets”, storiella ambientata nelle strade di Little Italy fra amicizia, amore, morte e redenzione. Il quartiere, dove il regista è nato, cresciuto e formato, è il vero protagonista della vicenda, nella quale l’esile trama è solo un pretesto per mettere in scena una sorta di dettagliato trattato socologico ed antropologico sulla vita e i movimenti di una fauna che vive di espedienti, divisa fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il film è sincero, genuino e come detto in precedenza nuovo, scarno d’accordo, essenziale ma girato ottimamente, con uno stile ed una “tecnica” invidiabili, c’è più cuore e voglia che tecnica ma si parla di quest’ultima solo per esaltare il grande regista che con questo film si stava facendo e che avrebbe fatto della passione la sua vera tecnica. Lontano anni luce dalle acque ferme nelle quali ristagnava la Hollywood degli Studos, fatta di cariatidi ormai mummificate e film già vecchi ancor prima di essere proiettati, “Mean Streets” è l’opera che sfrutta pienamente il nuovo movimento della ‘New Hollywood’ per consacrarlo definitivamente, imponendo di conseguenza nuovi stili cinematografici, nuovi attori e nuovi registi, personaggi di spicco che negli anni a venire avrebbero rinvigorito la cultura popolare ed il cinema, non solo americano, ma di tutto il mondo. E’ dunque un’opera che và inquadrata soprattutto per gli anni nella quale è stata data alla luce, gli anni del cambiamento, i primissimi anni ’70, che dal 1968 sono stati il periodo di maggior sperimentazione e di un accesissimo vigore artistico; il nostro Scorsese, di lì a poco avrebbe diretto il sommo “Taxi Driver”, opera che metterà un bel punto alla prima parte della sua carriera e lo farà andare consapevolmente a capo. Qui il buon Martin dimostra di conoscere benissimo ciò che narra e senza paura lo mostra, esaltando e ironizzando su tutti i personaggi che danno vita alla vicenda, in primis quello interpretato dal suo attore feticcio Bob De Niro, qui nelle vesti dello squinternato Johnny Boy, guappetto di quartiere senza ne arte ne parte, croce e delizia del più inquadrato, ma ipocrita, personaggio inerpretato da Harvey Keitel, fulcro della vicenda e l’unico tristemente consapevole della meschinità della propria vita e delle vite dei suoi amici, dei quali però non sembra poter fare a meno. In “Mean Streets”, come già accennato, non c’è una vera trama, è solo un viaggio, divertente, doloroso e dettagliato, nelle esistenze di ragazzi sbandati che giocano a fare i duri nella Little Italy dei primi anni ’70 e il regista dirige l’orchestra con l’ abilità di un grande cineasta che ha assorbito i vecchi classici del cinema per contribuire a creare un nuovo discorso e una nuova idea di cinema sbocciata dal sacro fuoco dell’arte. La grandezza del suo cinema la si evince anche dall’uso, nuovissimo ed unico, della colonna sonora che mescola con un’efficacia sabalorditiva pezzi storici del rock anglosassone e statunitense e pezzi di folclore italiano, nella tracklist infatti si possono notare i Rolling Stones, Eric Clapton, Renato Carosone e John Mayall, un mix incredibile che sarebbe diventato un marchio di fabbrica per Scorsese,da sempre attento sl sound dei propri film, il quale ha intuito egregiamente che una buona canzone può valorizzare una scena altrimenti piatta e di conseguenza l’esatto contrario. Per la serie ‘cinema e musica sono complementari.’ L’entrata in scena di De Niro/Johnny Boy sulle incalzanti note di ‘Jumpin Jack Flash’ degli Stones ne è un esempio più che esaustivo, grande stile e senso del gusto moderno. Per concludere ci troviamo di fronte ad un film “fottuto”, un cinema che non poteva passare inosservato per via di quanto detto finora, l’inizio di qualcosa di meraviglioso, l’inizio di un nuovo modo di intendere i films, l’inizio di un nuovo linguaggio, sporco e diretto ma anche l’inizio, il lancio definitivo se preferite, per la stratosferica carriera di Martin Scorsese, un regista di cui si avrà sempre bisogno.

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2 Agosto 2013 in Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno

4 Novembre 2012 in Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno

Un film epocale, di rottura, poco noto al grande pubblico ma di fondamentale importanza per la cinematografia che da quegli anni in poi inizierà, grazie anche a film come Mean Streets, a rompere le righe, a sdoganarsi da un passato bigotto.
Il Tarantino di Pulp Fiction, deve probabilmente di piú a questa pellicola che ai tanto decantati B-movies.
Con il pretesto di una banale storia di debiti non pagati, lo Scorsese degli esordi dipinse questo magnifico affresco della Little Italy degli anni ’60-’70, quando, come ricorda lo stesso regista, la scelta da fare per un italo-americano era di diventare gangster oppure farsi prete. Scorsese, che nella vera Little Italy trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza, descrive con il piglio del socio-antropologo la vita nelle Mean Streets, i bassifondi cittadini, le “squallide vie”.
Per farlo abbraccia, neanche troppo velatamente, lo stile del neorealismo italiano, connotato peró da un’impronta violenta, schizzofrenica: la macchina da presa mobile, che si muove convulsamente seguendo i protagonisti, costituisce un chiaro esempio dell’originalità scorsesiana. In certe scene, come quella della maxi-rissa, la macchina segue i litiganti con un allucinato moto circolare.
Scena fantastica, memorabile, che da sola farebbe gridare al capolavoro, quella dell’ubriachezza di Charlie. Una macchina da presa che segue, oscillando e arretrando, il primo piano barcollante di Keitel, come in un delirio lisergico.
Scorsese usa il ralenty e le musiche in modo ineccepibile.
La colonna sonora è superlativa e comprende rock, opera, musica della tradizione napoletana in un pot-pourri mai banale. Dai Rolling Stones a Be my baby dei Ronettes, da Carosone al grande tenore Giuseppe di Stefano.
L’interpretazione dei due attori principali è perfetta: De Niro si cala magnificamente nel ruolo del folle Johnny Boy, facendosi le ossa per i due ruoli memorabili del giovane Vito Corleone nel Padrino parte II e del Travis Bickle di Taxi Driver. Harvey Keitel (che a mio modesto parere è uno degli attori migliori di Hollywood, cosa che non è mai stata sancita dal suo ingresso nella platea degli attori di prima fascia, osannati dal grande pubblico) interpreta il ruolo del protagonista come nessun altro probabilmente avrebbe saputo fare.
Ultimo appunto sulla splendida fotografia: tinte caldissime, rosso acceso in prevalenza, accompagnano buona parte delle scene in interni, per essere sostituite da colori slavati e opachi negli esterni, con un effetto geniale di voluta sovraesposizione. Come a voler ricordare anche con i colori l’eterno conflitto che è filo conduttore dell’intera pellicola, quello tra passione e religione, tra follia e misticismo, tra ambizione e razionalità. Una dicotomia ben rappresentata, una volta tanto, dal sottotitolo italiano: Domenica in chiesa, lunedí all’inferno.

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