Recensione su L'incredibile storia dell'isola delle rose

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The Isle That Rocked / 10 Dicembre 2020 in L'incredibile storia dell'isola delle rose

A 6 anni dall’exploit del primo capitolo della trilogia di Smetto quando voglio (2014), conclusa nel 2017, Sydney Sibilia è tornato nelle vesti di sceneggiatore (insieme a Francesca Manieri) e regista con L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, una di quelle storie vere che sembrano nate per essere portate al cinema, prima o poi.

Alla fine degli anni Cinquanta, in un momento di profondi cambiamenti sociali ed economici, un giovane ingegnere bolognese (nel film, è interpretato da Elio Germano) progetta e realizza un’utopia. All’inizio del XVII secolo, Tommaso Campanella teorizzava la Città del Sole. Nel 1967, tralasciando i simbolismi e la filosofia di Campanella, Giorgio Rosa fondava in acque internazionali un microstato in cui si parlava esperanto, al largo delle spiagge di Rimini.
Quante persone possono dire di aver realizzato concretamente un’utopia?

Nel film, prodotto da Netflix e Groenlandia, la casa di produzione fondata dal regista e dall’amico e collega Matteo Rovere, Sibilia usa un certo brio e ironia, per raccontare una storia curiosa ed emblematica, in cui un uomo della strada adopera, letteralmente, la fantasia per scardinare gli assetti costituiti.
Nel complesso, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose fila, anche se, soprattutto nella seconda parte del film, tende a rallentare più volte, perdendo mordente, impallidendo. Più che altro, ho percepito poca gioia e poco afflato liberatorio, nella rappresentazione delle attività sull’Isola: si vede gente ballare, c’è una barista minorenne e incinta che, come dice il personaggio di Germano, in Italia avrebbe avuto ben poche possibilità di essere economicamente indipendente e poco più.
Invece, ho trovato interessante (ma non del tutto riuscito) il tentativo di rileggere in maniera quasi ucronica le biografie degli integerrimi e severi politici democristiani in scena, trasformandoli in uomini “qualunque”, scurrili, nevrotici, con il ministro dell’Interno Restivo (Fabrizio Bentivoglio) cattivo come un villain dei cinecomic.

Rispetto ai fatti realmente accaduti di cui ho letto e visto un po’ in giro, la sceneggiatura ha modificato molte cose (tempi, eventi), ma questo non importa: palesemente, l’obiettivo del film non è la fedeltà assoluta della rappresentazione (per quello, ci sono i documentari), ma la messinscena di un rivoluzionario pensiero anarco-pacifista. Un po’ come è già accaduto con I Love Radio Rock (2009) di Richard Curtis, in cui si racconta l’epopea delle radio pirata che, negli stessi anni dell’Isola delle Rose, trasmettevano “musica leggera” al largo delle coste britanniche.
Allo script rimprovero soprattutto il repentino appiattimento dei personaggi in topoi (perlopiù divertenti, ma pur sempre un po’ troppo macchiettistici) e l’uso di elementi superflui (es.: il naufrago amante del Cynar, la figura della famiglia Rosa troppo abbozzata – la madre è imbarazzante, non parla, china la testa: non è lo specchio di un’epoca, è solo “scritta” male).
Mi ha lasciato perplessa anche il cast: Germano, non al suo meglio, è troppo “vecchio” per interpretare quello che dovrebbe essere, al massimo, un venticinquenne; Matilda De Angelis sembra (anche se, in effetti, è) troppo “giovane” per essere una docente universitaria di diritto internazionale; per somigliare (senza somigliare) al Presidente Leone, Luca Zingaretti indossa una parrucca e un brutto naso posticcio.

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