Il vero conformista / 27 Novembre 2018 in La tragedia di un uomo ridicolo

(Sei stelline e mezza)

Primo Maggiari, imprenditore del settore alimentare della Bassa parmense, si distingue nella galleria di personaggi bertolucciani per la sua mancanza di rottura con il contesto. Come Marcello Clerici, per esempio, dedica tutta la propria vita a conformarsi alle richieste di una società trafficona (da bracciante illetterato, diventa facchino, si avvicina ai partigiani e, poi, ricco imprenditore, con casa firmata, moglie francese, auto di grido e figlio -lui sì- ribelle). Ma, a differenza del protagonista de Il conformista, non patisce della sua omologazione sociale, se ne bea e non vive il suo status di arricchito come una colpa per cui pagare. Perlomeno, non fino a quando il rapimento del rampollo non lo pone dinanzi a inquietanti dilemmi. Meglio la roba (intesa in senso verghiano) o il sangue?

La tragedia di un uomo ridicolo non è, forse, tra i film di Bertolucci più riusciti e centrati (nella rappresentazione del rapporto fra Maggiari e gli amici del figlio c’è qualche farraginosità di troppo e, a tratti, il montaggio del film disorienta un po’), ma contiene in sé pregevoli elementi di riflessione e altri di preziosa resa formale, come l’ispirata prova d’attore di Ugo Tognazzi, premiato a Cannes ’81 e con il Nastro d’Argento, e la fotografia illuminata (in molti sensi) di Carlo Di Palma.

A partire dal titolo, una specie di ossimoro ironico e grottesco, la storia di Maggiari è sottilmente ridanciana, demistificatrice nei confronti dei capisaldi dell’Italia del (post) boom.
Benché gli obiettivi e i toni siano quantomai diversi (e, soprattutto, quelli di Bertolucci non siano mai -volutamente- univoci, ma costantemente ambigui e quasi opachi), il protagonista del film di Bertolucci mi ha ricordato il gruppo di personaggi di C’eravamo tanto amati di Scola. Se la partecipazione di Maggiari alla lotta di liberazione partigiana ha rappresentato l’unica sua vera azione civile, sembra che quest’uomo sanguigno abbia smarrito il suo impegno sociale a favore dei simboli del capitalismo, in una sorta di personale scala di valori in cui l’uno supera l’altro.
Non è del tutto chiaro se il rapporto interrotto con il figlio sia dovuto al fatto che il ragazzo gli rimprovera apertamente qualcosa (forse, proprio lo status sociale acquisito) e se sia complice della propria scomparsa (sovviene, infatti, il sospetto che Giovanni-Ricky Tognazzi si sia “rapito da solo” per punire economicamente e moralmente il padre). Certo è che, come (seppure, con minor evidenza) Ne la strategia del ragno, il protagonista sia costretto a fare i conti con il proprio passato e con ciò che ha scelto di essere in rapporto a esso.

La tragedia di un uomo ridicolo si chiude con una sequenza emblematica ma non del tutto risolutrice (in piena aderenza con il mood del film).
Tognazzi/Maggiari zampetta via in maniera -per l’appunto- ridicola (mi ha ricordato certi schizzetti veloci di Andrea Pazienza), inscritto in un cerchio che si restringe via via sul suo contorno, cancellando tutto quello che lo circonda, mentre la sua voce fuori campo pronuncia la battuta: “Il compito di risolvere un enigma rapito, morto e risuscitato lo lascio a voi. Io preferisco non saperlo”. Maggiari, simbolo di un virile patriarcato svilito dall’imborghesimento, rifiuta ogni responsabilità intellettuale. Reclama la sua natura di lavoratore illetterato, tentando di giustificare le proprie mancanze, il suo piano sbalestrato, la sua (dis)affezione per un figlio che è fra i simboli del suo status problematico, e la sua tragica meschinità è davvero ridicola.

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