Arrivo al primo Hellboy di del Toro un po’ fuori tempo massimo. Nel frattempo, i cinecomic si sono evoluti decisamente e, forse, il tono cartonato di questo film sa già di datato, nonostante siano trascorsi “solo” 15 anni dalla sua uscita. Per esempio, X-Men di Singer, che è del 2000, mi pare abbia retto meglio il trascorrere del tempo, ma mi rendo conto che la ricerca estetica e l’approccio alla materia dei due registi sono diversi fra loro e che un paragone di questo tipo non è del tutto centrato.
Purtroppo, non ho mai letto un solo albo del fumetto originale, quindi non ho idea di quanto il film sia fedele alla matrice.
Per portare in scena la creatura di Mike Mignola (che ha partecipato al film come supervisore), mi pare che -fin dalle musiche originali- del Toro abbia deciso di attingere a un certo genere di cinematografia, cioé le storie d’avventura hollywoodiane anni Trenta-Quaranta, quello stesso filone a cui, in un revival non sempre azzeccato, hanno attinto a più riprese produzioni multimilionarie di genere come Le avventure di Rocketeer (1991), Sky Captain and the World of Tomorrow (2004) e la saga di Indiana Jones di Spielberg.
In questo lavoro ad alto budget (il film è costato più di 66 milioni di dollari e ne ha incassati poco meno di 60 negli Stati Uniti, rientrando di poco nelle spese grazie ai botteghini internazionali), del Toro deve essersi divertito come un pazzo a mischiare artigianato e tecnologia di (ai tempi) ultima generazione.
Scenografie, make up e costumi sono la cifra del miglior cinema del regista messicano, amante del “saper fare con le mani”: attingendo al repertorio formale déco per caratterizzare ambienti urbani e interni e lavorando abbondantemente in studio, del Toro non ha avuto paura di usare e mostrare la bellezza e l’artificiosità delle scenografie posticce create da sapienti maestranze cinematografiche. A scorrerla, appare chiaro che la filmografia di del Toro è un bel parco giochi in cui lui si diverte puntualmente a portare in scena le proprie passioni (fumetti, anime giapponesi, b-movies, illustrazione…) e a mostrare quanto e come il cinema sia capace di creare altromondi di cartone.
L’uso della computer graphic è funzionale a tutto questo e, pur con qualche discrepanza (vedi, l’animazione dei mostri, particolarmente fluida quando è affidata al computer), si fonde bene con le soluzioni tecniche più tradizionali adottate.
Insomma, nei film di del Toro si capisce sempre che esiste un confine molto netto tra rappresentazione e realtà: lo schermo è lo specchio di Alice, quello in cui si cade per entrare in un Paese delle Meraviglie correttamente inquietante (l’immortale ninja nazi senza palpebre e sabbia al posto del sangue è fantasticamente da incubo e, poi, ci sono morti truculente a ogni passo).
In fin dei conti, si lascia guardare con il sorriso: Hellboy mi è sembrato un film molto sofisticato e curato dal punto di vista tecnico, ma particolarmente ingenuo sotto l’aspetto narrativo. Del Toro ama le storie à La Bella e la Bestia, è assodato, ma l’aspetto favolistico, qui, va un po’ ramengo e, pur essendo inizialmente abbastanza marginale, irrompe nella storia per diventare senza troppo senso di continuità il perno del racconto, a discapito della rappresentazione del conflitto (in potenza più interessante) tra l’antieroe e il villain. Rasputin si rivela un nemico abbastanza innocuo e lo scontro continuo tra Red e i demoni (che di demoniaco hanno ben poco e che assomigliano più a calamari kaiju in arrivo dallo spazio profondo) ha poco di infernale e, piuttosto, sembra un lungo match di wrestling con mazzate a cinque dita e poco più.
In realtà, anche l’identità di Red non è perfettamente sbozzata: è uno spaccone forzutissimo dal cuore buono, capace di slanci molto generosi, che incassa un sacco di botte ed è immune al fuoco, ma che, spesso, nel corso del film, non sembra particolarmente capace in qualcosa.
Nonostante il trucco pesantissimo e il notevole apparato del suo costume, il viso caratteristico di Ron Perlman emerge chiaramente dal volto di Hellboy.
Selma Blair è correttamente malinconica. John Hurt fa il suo dovere. Bellissimo (in molti sensi) Abe, l’uomo pesce del fidato Doug Jones, fratello gemello (parlante) della creatura (muta) de La forma dell’acqua (2017). Sciapissimo (non solo per demerito dell’attore) l’agente Myers di Rupert Evans.
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