Uno dei film più violenti degli anni novanta, e insieme anche uno di quelli stilisticamente più interessanti.
Oliver Stone – in una veste piuttosto insolita – parte da un soggetto del Quentin Tarantino degli esordi, ricavandone una sceneggiatura per la quale i due sarebbero addirittura giunti allo scontro fisico, a causa dello stravolgimento che il regista attuò nei confronti della storia originaria.
Per Natural Born Killers Tarantino aveva pensato a qualcosa di molto più simile (almeno come struttura) a quello che diventerà Pulp Fiction (usciti entrambi nel 1994). Stone decise di farne una pellicola incentrata sul rapporto tra violenza e mass media, che critica pesantemente nel loro ruolo di cinici diffusori di fatti cruenti al solo scopo di far crescere l’audience.
La violenza viene rappresentata in modo esplicito e spesso disturbante in quello che il regista dichiarò essere un intento satirico, che tuttavia non si coglie appieno.
Il paradosso che si porta dietro questa pellicola è che pur denunciando la violenza ha dato adito alla stessa, se è vero che diversi criminali (tra cui i due giovani che compirono il massacro alla Columbine High School) si ispirarono a questo film (o trovarono in esso uno spunto) per compiere delle efferatezze.
Del resto, in film di questo genere – che partono con l’intento di denunciare la violenza e finiscono per esaltarla (almeno agli occhi delle menti più deboli) – il rischio di un travisamento del messaggio è sempre dietro l’angolo.
Questo aspetto, forse l’unico biasimevole del film, è compensato dalla grande originalità della pellicola: inquadrature oblique, volti deformati come da specchi, alternanza di bianco e nero sgranato e colori sgargianti, inserti di fumetto (che potranno vantare numerose emulazioni), l’infanzia dei protagonisti richiamata nello stile di una sit-com, con tanto di risate di sottofondo ad esaltare uno humour totalmente politically incorrect (quello di un clima familiare dominato dalle violenze e dall’incesto).
In generale una fotografia psichedelica e un ritmo indiavolato, con un montaggio incredibilmente dinamico, che si spinge fino all’estremo dell’introduzione di fotogrammi che si pongono ai limiti del subliminale.
Un modo per rappresentare la follia dei due protagonisti, la loro totale alienazione mentale, risucchiati in una spirale di violenza fine a se stessa, spesso esaltati dall’assunzione di stupefacenti.
Uno stile per certi versi televisivo, da videoclip, insolito nel mondo del cinema ma a mio parere azzeccatissimo.
A coronamento di ciò, una grandiosa colonna sonora, sempre adeguata al ritmo dell’azione, tra cui spicca la Sweet Jane dei Cowboy Junkies (notevole cover lenta della canzone dei Velvet Underground).
Ma un tassello fondamentale della riuscita di questo film è dato dall’interpretazione pressoché perfetta di tutti e cinque i personaggi principali:
– i due protagonisti, la coppia criminale Mallory e Mickey Knox, con una Juliette Lewis perfettamente calata nella parte e un Woody Harrelson inquietantemente a suo agio nel ruolo del serial killer psicopatico (suo padre fu realmente un assassino, e Stone pare che lo scelse perché vide in lui qualcosa di geneticamente violento);
– Wayne Gale, l’anchorman che permette al regista di criticare il cinismo dei mass media, interpretato da un Robert Downey Jr. che fornisce un’interpretazione in crescendo, anche se probabilmente quella meno convincente tra i cinque;
– il detective Scagnetti di Tom Sizemore, anch’egli sufficientemente squilibrato e criminale, pur nella sua veste di rappresentante della legge, è un personaggio estremamente godibile, anche se non quanto il direttore del carcere McClusky, un Tommy Lee Jones totalmente sopra le righe in un ruolo ironicamente molto riuscito.
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