Recensione su Zabriskie Point

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L’Eden sulla Luna / 18 Febbraio 2016 in Zabriskie Point

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Riflessioni sparse)

Quasi non conosco Antonioni (tra le mie ondivaganti esperienze cinefile, annovero solo Blow-Up e l’episodio di Al di là delle nuvole): mi riprometto da tempo di recuperarne la filmografia, senza dedicarmici mai.
Certo è che ho approcciato Zabriskie Point quasi per caso, grazie ad un passaggio televisivo, e che, consapevole di non avere la “preparazione” adeguata a coglierne molti aspetti (non sono in grado, per esempio, di ravvisare un’eventuale sviluppo dei temi affrontati fino a quel momento da Antonioni e di quanto e come questa esperienza americana abbia influito su uno stile già codificato), mi è piaciuto davvero tanto.

Ho voluto intendere questo film come una rappresentazione della contestazione giovanile sublimata attraverso la favola. O il mito, se preferite.
La Valle della Morte è, a dispetto del suo nome, un Eden in cui, per un attimo, si scorge la forma primigenia (idealizzata?) della vita: l’Amore. A dispetto di tutto quello che circonda Zabriskie Point, dalle metropoli, alle strade, alle ville, all’umanità intera, con il suo apparato smisurato di tecnologia e di beni di consumo, il deserto lunare di polvere, rocce ed un antinomico sole è l’unico luogo in cui sembra sia possibile consumarsi d’amore come giovani fiere, in vivifici amplessi (solo immaginati, a conti fatti) e sopravvivere solo per essi e grazie ad essi.
In una visione della vita letteralmente onirica, non occorrono neppure cibo ed acqua e non sembra contemplata la riproduzione della specie: ci si basta (illusoriamente) da sé.
Ma il mondo al di fuori di Zabriskie Point non ama le favole, né le ingenue poesie capaci di ribaltare la realtà.

“Cosa vuol dire ‘legati alla realtà?’ Ah, sì, non possono immaginare niente”, recita Daria (la Halprin): mentre è in volo verso Los Angeles, pronto a restituire l’aeroplano sottratto, Mark (Frechette) è ancora l’incarnazione dell’utopia giovanile. L’atterraggio sulla pista, con il velivolo circondato dalle macchine della polizia, è il risveglio definitivo dal sogno, il ritorno sulla Terra dopo le voyage dans la Lune, un letterale ritorno a quella realtà priva di immaginazione di cui è difficile, se non impossibile, cogliere il significato e le contraddizioni.

Ho apprezzato molto, qui, la fotografia di Alfio Contini, fedele collaboratore di Dino Risi, e la cura profusa da Antonioni nel creare elegantissimi ed efficaci fotogrammi, veri e propri tableaux vivants segnati da perfetti cromatismi e impressionanti sincronie tra corpi, oggetti e architetture (la morbidezza della pelle a contatto con il vetro o la pietra, l’antropizzazione del deserto, con l’inclusione dell’asfalto, dei wc o della splendida villa tra le rocce, i cactus e la sabbia, ecc.): ogni inquadratura, ogni singolo frame è efficace e funzionale, nulla sembra essere frutto della casualità, neppure (anche se mi rendo conto di esagerare) le traiettorie degli oggetti frantumati che si offrono alla telecamere durante le celebri esplosioni finali.

Ammetto di essermi stupita nel veder comparire il nome di Sam Shepard tra gli sceneggiatori del film, insieme a quello di Tonino Guerra.

Curiosità: nelle sequenze iniziali, quelle in cui gli studenti sono coinvolti in un dibattito moderato da due coetanei di colore, la ragazza con i capelli afro è doppiata da Monica Vitti, volto del “cinema dell’incomunicabilità” di Antonioni (che, prima o poi, recupererò).

2 commenti

  1. scimmiadigiada / 14 Ottobre 2017

    non condivido del tutto l’entusiasmo per questo film (che, in fin della fiera, reputo un po’ noioso e non invecchiato benissimo) ma trovo eccellente la tua recensione da cui traspare un grande entusiasmo non privo di riflessioni acute e intelligenti, nonchè di una certa competenza di analisi a dispetto della dichiarazione iniziale di una certa ignoranza della filmografia del regista. è stato un piacere leggerla, più che guardare il film 🙂

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