Recensione su Steve Jobs

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La vita come rappresentazione teatrale / 25 Gennaio 2016 in Steve Jobs

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

L’impianto del film di Boyle è decisamente e piacevolmente teatrale, sia per la scelta delle location (i dietro le quinte e le platee mostrate negli attimi che precedono tre presentazioni fondamentali di Jobs) che dell’impianto narrativo (scandito in tre atti precisi), che delle entrate/uscite in/dalla scena dei comprimari (a conti fatti, Fassbender è l’unico ad essere sempre sul “palco”, senza interruzioni, se non quelle tra un atto e l’altro).

E anche lo sviluppo del racconto può essere definito teatrale, nell’accezione forse più prosaica del termine: la vita privata e professionale di Steve Jobs che emerge da questo film è un inviluppo di deficit comportamentali che pongono il protagonista in bilico tra il noto genio, l’anaffettività e la testardaggine pura.
In questo senso, ho apprezzato il “coraggio” iniziale avuto da Boyle (regia) e Sorkin (sceneggiatura) nel tratteggiare con apparente sincerità un personaggio fastidioso (inteso letteralmente come “creatore di fastidio”) come questo, ma non capisco perché, sulla distanza, abbiano sentito l’impellente necessità di riabilitarlo, prima impercettibilmente, dando indizi sulla sua infanzia difficile, poi in maniera via via più plateale, con l’approssimarsi di un finale che ho trovato davvero poco digeribile.

Se, nell’ultima sequenza del film, avessi visto Jobs chiudere materialmente la porta in faccia alla figlia (“Scusa, tesoro, ma devo presentare l’iMac, sai com’è”), non avremmo avuto nulla di cui stupirci e, anzi, avremmo potuto apprezzare l’uniformità completa del personaggio: non interessa sapere se quell’episodio si è verificato davvero e se si è svolto così come è stato rappresentato (come il resto della messinscena, d’altronde), ma gli ultimi minuti di film sono stati in grado di sgretolare un complesso di chiaroscuri altrimenti molto coerente e credibile.
Voler mostrare a tutti i costi che Jobs sapeva provare emozioni ed empatia, con la presunzione di offrire tale concetto al pubblico come se fosse un colpo di scena, è un artifizio che -a parer mio- poteva essere risparmiato e che inficia decisamente la mia valutazione complessiva di un film altrimenti ben diretto, solido e decisamente ben interpretato (eccellenti Fassbender e la Winslet), a cui riconosco il grande merito di aver saputo raccontare, come forse neppure i documentari sull’argomento finora prodotti sono stati in grado di fare, come precisi “oggetti” sono diventati comuni e familiari nell’immaginario collettivo e quali sono le logiche che ne hanno sotteso l’immissione sul mercato.

6 commenti

  1. inchiostro nero / 25 Gennaio 2016

    Credo che l’incoerenza che giustamente hai riscontrato nel finale, sia in qualche modo un tentativo di ”umanizzare” un atteggiamento, che per le proprie peculiarità, si configurava come ”meccanico” , e quindi in linea con il prodotto rappresentato. Una risposta antropica ad un’austerità computerizzata.

    • Stefania / 25 Gennaio 2016

      @inchiostro-nero: certo! Il tentativo è quello, ma -percepirlo- mi ha davvero disturbata: mi pare una gomitata d’intesa con il pubblico un po’ ruffiana, anche se, per esempio, l’immagine (che hai correttamente esplicitato: azione, sentimento e raziocinio umano contro un’impostazione preordinata) ha il suo fascino.

  2. inchiostro nero / 26 Gennaio 2016

    @Stefania Però vi è da dire in ultima analisi, che il cambiamento si attua solo in funzione della figlia, e non in virtù di una più ampia prospettiva; in quanto fino alla fine serba il suo egocentrismo, e la sua risolutezza, non volendo ringraziare né i piani alti, né coloro che attivamente hanno contribuito al suo successo. In questo vi è coerenza narrativa.

    • Stefania / 26 Gennaio 2016

      @inchiostro-nero: perdona la testardaggine, ma continuo a trovarlo un dettaglio ruffiano. La stima o la disistima nei confronti di Jobs non cambia in funzione di quel passaggio, ma -ai miei occhi- è messo in bella vista per ricordare (ma, in fondo, chi lo sa davvero?) che era umano e fallace e dotato di sentimenti. Ma quella scena non occorreva, né per confermare, né per smentire l’una o l’altra cosa: è l’happy ending disneyano che Boyle ha applicato, com’era giusto che fosse, in film come The Millionaire, ma che qui non occorreva affatto. L’umanità di Jobs emergeva benissimo dalla sua disumanità: perché addolcire immancabilmente la pillola, appiattendo un personaggio giustamente scabroso? 🙁

  3. inchiostro nero / 26 Gennaio 2016

    @Stefania Figurati, comprendo benissimo il tuo fastidio. In questa ottica non solo sembra ruffiano, ma alquanto superfluo, Solo che nel mio caso, non ne ha minato il giudizio.

  4. Stefania / 26 Gennaio 2016

    @inchiostro-nero: grazie per la comprensione, eh eh 🙂

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