7 Recensioni su

Synecdoche, New York

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Mise en abyme / 15 Febbraio 2021 in Synecdoche, New York

l’espediente narrativo che consente di sviluppare all’infinito lo stesso tema scelto dall’artista.
Una sorta di diorama cinematografico insomma.
E, in questo caso, ci si perde volentieri; complici anche gli attori che primeggiano.

L’ho ritrovato su Mubi, dopo tanto che lo andavo cercando. Ciao.

Gli strati della rappresentazione / 4 Settembre 2017 in Synecdoche, New York

Uno dei film più complessi che io abbia visto, una stratificazione che non è solo facilmente onirica ma è teatralmente plausibile. E’ un film che va rivisto, ma già alla prima visione risalta il lavoro eccezionale di scrittura e di scenografia; le idee abbondano e sorprendono (la cosa più criptica e affascinante rimane la casa incandescente di Samantha Morton), l’interpretazione di Philip Seymour Hoffman probabilmente qui è al suo livello massimo. Un cast semplicemente perfetto, dalle prime alle ultime linee, girato magistralmente sotto il segno di Kaufman che è uno dei cineasti più innovativi degli anni duemila.

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Visionario / 5 Febbraio 2016 in Synecdoche, New York

Per la regia di Charlie Kaufmann, un film complesso e ben girato. Protagonista il compianto PS Hoffman, nel ruolo di un regista teatrale di successo che decide di mettere in scena il suo più grande spettacolo. E’ un film estremamente difficile da seguire e capire, ma si ha sempre il sentore di essere di fronte ad una grande produzione. Le vite che si intrecciano e confondono, il tempo che passa senza riuscire a capirlo, trovate incredibili, che vedendole vi lasceranno a bocca aperta più di una volta. In conclusione, un film difficile anche da descrivere, consiglio semplicemente di guardarlo e di farsi una propria idea. Senz’altro una delle produzioni più originali e complicate mai viste.

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Il debutto di Kaufman / 11 Luglio 2014 in Synecdoche, New York

La fama che possiedono registi come Michel Gondry (Eternal Sunshine Of The Spotless Mind) e Spike Jonze (Essere John Malkovich, Il Ladro Di Orchidee), sicuramente la devono in parte al lavoro dell’americano Charlie Kaufman. Le sue sceneggiature risultano infatti opere di tutto rispetto, in grado di mettere in mostra svariati fattori positivi nelle pellicole a cui egli si va a dedicare.
E’ enorme la sensibilità, l’introspezione e la grande umanità che Kaufman conferisce ai suoi personaggi, così come la sua abilità nel destreggiarsi tra la sfera del reale e quella visivamente onirica. Un autentico e moderno cantastorie appassionato.
Questo Synecdoche, New York, film che consacra anche il suo debutto come regista, non si sottrae dalle definizioni sopracitate. Una storia trattata con originalità, con un bel cast sulle spalle (Hoffman spicca su tutti) e anche una bella e malinconica colonna sonora ad opera di Jon Brion.

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Sogno o son desto? / 23 Giugno 2014 in Synecdoche, New York

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Orpelli visivi e pregevoli cortocircuiti narrativi a parte, questa prima opera da regista di Kaufman è una riuscita e decisamente esaustiva messinscena della (non “sulla”) miseria umana, del malinconico e biasimevole anelito all’unicità, alla specialità, che ciascuno crede di possedere e a cui molti sacrificano la propria esistenza.

Una delle battute più significative del film, non a caso, recita: “(…) E, anche se il mondo va avanti per eoni e eoni, voi rimanete qui soltanto per una frazione di frazione di secondo. La maggior parte del vostro tempo viene passata da morti o da non ancora nati. Ma, mentre siete vivi, aspettate invano sprecando anni per una chiamata o una lettera o uno sguardo da qualcuno o qualcosa che faccia andare tutto bene. E non arriva mai, o sembra che arrivi, anche se non è così in realtà”.
Se solo ne fosse pienamente consapevole (o, se pure consapevole, non ne avesse paura, tanto da sfuggirle, sviluppando imbarazzanti malattie psicosomatiche), il protagonista avrebbe tra le mani tutto quello che potrebbe regalargli questa parentesi di perfezione mortale, tra cui un’ingente, se non incalcolabile, somma di denaro che egli, guarda caso, decide di investire in un’opera mastodontica ed infinita, nel vano tentativo di rendere la propria insignificante esistenza un modello per chiunque assista alla sua trasposizione in scena.

Come Carax in Holy Motors, tanto per citare un titolo recentemente comparso sui nostri schermi, Kaufman riprende il noto concetto per cui la vita altro non è se non un concitato e buffo arrabattarsi su un palcoscenico, durante il quale vestiamo maschere, interpretiamo ruoli spesso distanti dalla nostra personalità, nella vana ricerca di una soddisfazione personale legata principalmente all’attenzione di terzi (dai genitori ai compagni, ecc.), e lo arricchisce con un nichilismo ben poco consolatorio ed un senso del definitivo che lascia scampo nullo a qualsivoglia velleità da sognatori.
Eppure, questa pellicola è ricca di elementi onirici: dalla ripetitività quasi ossessiva delle dinamiche e delle azioni, alla circoscrizione degli spazi (così simili a quelli di un gioco di ruolo o di un videogame), all’irraggiungibilità di cose e persone, all’incapacità (a livello lessicale) di comprendere o di farsi comprendere (vedi, gli incontri di Caden con i medici), alla mancanza di consapevolezza cronologica… tutti gli elementi che costellano il film, paralleli alla vicenda principale ma costitutivi della stessa, sono impalpabili, relativi, indefiniti, incontrollabili, proprio come gli ingredienti dei sogni.

Non sono stata in grado di afferrare appieno il significato di tutti gli elementi “curiosi” che Kaufman ha inserito nel film: per esempio, non ho compreso l’esistenza della casa perennemente in fiamme di Hazel o il fatto che, nel seminterrato della stessa, vi abitasse il figlio dell’agente immobiliare che gliel’ha venduta (e, soprattutto, perché Kaufman tenesse tanto a mostrare questo dettaglio nonsense); parimenti, mi è oscuro il significato dei ritratti senza volto, quasi mimetizzati con la carta da parati, che campeggiano su alcune pareti, come quelle della cucina, della casa di Caden e Adele.
Però, ho apprezzato moltissimo altri dettagli a cui penso di aver trovato “giustificazione”: su tutti, il fatto che, così come accade regolarmente nella vita reale, taluni personaggi secondari assurgono a ruoli più importanti e viceversa. Nello specifico, Claire (Michelle Williams) scompare per sempre e della figlia avuta con Caden nulla si sa, mentre Millicent /Ellen (bentornata Dianne Wiest) sembra una caratterista senza alcuna rilevanza, eppure, d’un tratto, diviene deus ex machina del lavoro teatrale e, addirittura, coscienza e motore “fisico” di Caden, tanto da poter decretare la sua morte e la fine del film.

Ottime tutte le interpretazioni. Inutile parlare bene di Philip Seymour Hoffman, qui perfetto fantoccio malinconico.

Da vedere.

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23 Giugno 2014 in Synecdoche, New York

A sei anni dalla release internazionale, arriva nelle sale italiane “Synecdoche, New York”, il primo film da regista di Charlie Kaufman, sceneggiatore premio Oscar e collaboratore di nomi quali Spike Jonze (“Essere John Malkovich”, 1999) e Michel Gondry (“Se mi lasci ti cancello”, 2004). Una pellicola che vede come protagonista il compianto Philip Seymour Hoffman, forse uno dei pochi veri talenti del cinema contemporaneo, capace di connaturata versatilità sensibile, insita in tutti i suoi personaggi, come fu per “Truman Capote – A sangue freddo”, che lo consacrò nella storia della settima arte. La sceneggiatura analizza con un acume rigoroso i temi cardine del lavoro di Kaufman: l’identità indagata e sezionata, la concatenazione creata dall’inconscio tra reale e finzione, fino ad arrivare alla decadenza fisica e spirituale, preminente motivo della pellicola, disseminato e ben incastrato nella narrazione, in un connubio di sogni e speranze che sfociano in piene di rimorsi e sconfortanti rimpianti.

Così è un’esiziale malinconia a permeare tutta la pellicola, reiterata nei tasselli scenici e tecnici, come la bellissima fotografia che si fa mano a mano più torbida. Caden Cotard decide di mettere in scena “il giorno più felice della sua vita”, quello prima della sua morte: sagace metafora della vita, gioca con il titolo stesso del film estrapolando una parte per il tutto (“Synecdoche” è la fusione del termine “sineddoche” e del nome della contea d’ambientazione, Schenectady), di modo da poterlo rivivere nell’idea di continuità. In questo disegno labirintico si inseriscono le sentite interpretazioni delle tre partner, interpretate da Catherine Keener, Samantha Morton e Michelle Williams: donne bellissime che tentano un approccio sano con Caden, il quale però finisce per sabotare ogni intento costruttivo. Il suo corpo è dilaniato da malattie sconosciute e psicosomatiche, i suoi genitori muoiono, le sue relazioni non hanno il successo sperato, ma ogni perdita è soltanto materia in più per la sua arte.

In fondo le audizioni di Caden riguardano se stesso, le sue donne, e gli attori sono la chiave d’analisi e di svolta nei suoi legami, plasmando così una sorta di metacinema che non rinuncia alle innumerevoli storie che Caden ha voglia di raccontare. Dotato di un fascino ipnotico, “Synecdoche, New York” è un destabilizzante turbinio, sommesso ma sincero, come il sentimento del protagonista, a cui lo spettatore è sottoposto. Non è un film girato per riscontrare il favore di tutti gli spettatori, sia chiaro: l’opera di Kaufman si propone (forse volutamente) attraverso un processo di destrutturazione di non facile fruizione, ma infine trova il proprio senso occupando un posto preciso nella memoria, quella del cuore e dell’arte. Consigliabile una seconda visione.

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Come mettere in scena una vita. / 12 Febbraio 2014 in Synecdoche, New York

Charlie Kaufman, già sceneggiatore e produttore di film come Essere John Malkovich ed Eternal Sunshine of the Spotless Mind, alla regia di questa pellicola, più di un abbozzo mentale, offre un vero e proprio labirinitico disegno, in cui l’astratto si mescola al reale, in un connubio di sogni e desideri che si dipanano in rimorsi e avvilenti rimpianti. Il compianto Philip Seymour Hoffman ci regala una sofferta interpretazione, dove il protagonista è regista della sua stessa vita.
Quando vita e finzione non hanno più un aspetto distinto, la mente è una maschera indossata da sogni e paure, e le emozioni diventano solo patetiche caricature.

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