ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
Vita morta che nasce quando muore. C’è questo John dall’aria triste, impersonato da un tipico attore inglese con l’aria triste, che surely a casa sua è pure famosissimo, che di mestiere archivia i morti, nel senso che se muori e non sei/hai nessuno ci pensa lui, in quanto dipendente comunale a ciò preposto, sceglie la bara i fiori il funerale, compila una pratica che va tra mille altre. E ci tiene, al suo piccolo lavoro invisibile a tutti, e ai suoi clienti (che, il faut dir, raramente protestano). Viene licenziato, perché c’è un nuovo dirigente comunale rrrampante e perché dai, ccc’ècccrisi. Allora John chiede qualche giorno per sbrigare l’ultima pratica. Quasi sherlockescamente (wow) finisce per trovare la figlia di un fu ubriacone, e i suoi vecchi amici e colleghi, e di fino lavora per farli andare ai funerali di questa persona hyper-sola. Con la figlia del fu c’è pure un germoglio di conoscenza, che schiude sentimenti e prospettive. E bam, lo investe un bus. A tutti piacciono i bus inglesi no? C’è quindi un doppio funerale, finale e con un colpo di coda surrealfantastico; è il finale che mi ha risollevato il film, dignitoso ma che per il resto ho trovato troppo nel solco della solitudine da cinema d’essai. La vita vuota, i personaggi senza niente e nessuno che si costruiscono quotidianità spaventosamente geometriche e iterative, sono ricorrenti ormai da talmente tanto in certo cinema (quello che andiamo a vedere io. E i vecchi. Alla domenica pomeriggio. Ahimè!) da essere divenuti quasi esercizi di stile; e non sono cazzi miei nel senso che io pago solo il biglietto, ma cercare una strada altra anarchia non sarebbe, né alto tradimento. Per cui avercene, ma esisteranno altre strade.
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