Recensione su Solo sotto le stelle

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Il crepuscolo dei cowboy / 14 Settembre 2016 in Solo sotto le stelle

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Un anno dopo Gli spostati di Huston, David Miller portò al cinema un altro canto funebre dedicato alla fine del mito dei cowboy.
Metacinematografico quanto il film con la Monroe e Gable, seppur caratterizzata da un fascino assai meno decadente e da un’ironia più marcata, la pellicola di Miller è stata sceneggiata da Dalton Trumbo, uno tra i nomi più noti della blacklist di Hollywood, che pare abbia voluto ricordare nel racconto dell’incarcerazione ingiusta del cowboy e della sua fuga dalle forze dell’ordine la sua drammatica esperienza personale di pària tacciato di comunismo.

L’eccellente e totemico Kirk Douglas, principale sostenitore di Trumbo (insieme a Otto Preminger) tanto da volere la sua firma sul copione dello Spartacus di Kubrick, consentendogli di tornare ufficialmente al lavoro, è qui un ruspante ed inscalfibile cowboy, tutto sudore, sorrisi smaglianti e iconica fossetta, autore dell’evasione più rilassata della storia del cinema (vedere per credere con quanta nonchalance si produce nelle sequenze della fuga dal carcere).
Burns è simpatico, poderoso, sincero nelle parole e nei modi e le caratteristiche fisiche di un Douglas in gran forma (all’epoca quarantacinquenne, ha scalato montagne e cavalcato in sella sui crepacci, senza controfigure), contribuisce a delineare istantaneamente la “pasta” di cui è fatto il protagonista del film (eppure, Douglas, co-produttore del film non aveva pensato a sé per la parte del protagonista, ma a Gary Cooper: l’attore, purtroppo, era già ammalato e morì pochi mesi dopo alcuni contatti epistolari intercorsi con Douglas e i tentativi dello stesso di trovare un altro interprete che somigliasse al collega e fosse professionale quanto lui).
Eroe decorato nella Guerra di Corea, il suo Jack è un uomo che ha visto come la società “civile” sia in grado di spegnere, letteralmente, la gioia di vivere. Perciò, lieto di dormire sotto le stelle, di domare cavalli selvaggi, di non avere radici, né documenti, legato visceralmente agli amici, intende continuare a perseguire il sogno di una vita regolata dalle necessità del suo corpo e del suo spirito, celebrando senza tentennamenti un modello maschile anacronistico come quello del cowboy.

La sua controparte, seppur solo apparentemente defilata, è lo sceriffo Johnson, interpretato dal sornione ed azzeccato Walter Matthau: pur non dichiarandolo apertamente, Johnson da l’idea che farebbe a meno di opprimere Burns, pare averne intuito la natura. I suoi doveri di sceriffo, però, gli impongono di non mancare di spendere tutte le sue capacità per acciuffarlo. In questo senso, banalmente e con tutte le differenze del caso, ho voluto ritrovare i tratti caratteriali e attitudinali di questo personaggio nel detective Slocumb interpretato da Harvey Keitel in Thelma & Louise di Ridley Scott.

Nel cast, anche George Kennedy, faccia (in questo caso, senza baffi) sempre adatta per incarnare mezzi lestofanti, e una poco più che trentenne e puntualmente bella Gena Rowlands, da qualche anno già Signora Cassavetes.

Benché didascaliche, caratterizzate dalla calzante opposizione tra il mezzo usato dal cowboy (il cavallo) e quello ormai imperante nella società di metà Novecento (l’automobile), le sequenze di apertura e di chiusura del film racchiudono, anzi abbracciano, un racconto crepuscolare, dolente nonostante i numerosi sorrisi, privo di speranza. La muta disperazione negli occhi di Burns è, infine, più eloquente di tante parole.

Nota: il titolo italiano del film è poco azzeccato. Assai più efficace e significativo è quello originale, Lonely Are The Brave, “i coraggiosi sono solitari/stanno da soli”.

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