Recensione su La donna che canta

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Libano in fiamme / 13 Settembre 2016 in La donna che canta

In fremente attesa per Arrival, ho ripescato questo gioiellino della produzione pre hollywoodiana di questo elegante cineasta canadese che mi conquistò con l’elettrizzante Prisoners e mi raffreddò un po’ l’entusiasmo con il più lezioso Sicario (anche se poi l’interpretazione di Emily Blunt mi è rimasta abbastanza impressa nel lungo termine).
Oltre a un incipit potente sulle note dei Radiohead, si riconosce qui il gusto per l’immagine ariosa, di luce vivida (che troverà in seguito con la fotografia di Roger Deakins la quadra perfetta), l’attenzione artistica alla serietà espressiva nei volti; tanto Lubna Azabal (la madre) quanto Mélissa Désormeaux-Poulin (la figlia) incantano con la profondità dello sguardo, un dolce profilo mediorientale attraverso il quale partecipiamo a una storia durissima, di profonda tragedia. Il soggetto del drammaturgo libanese Mouawad stringe in finale su una connessione di eventi forse esageratamente scabrosa, ma alla radice resta una forte aderenza al reale e violento contesto storico.

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