Recensione su Everest

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Everest / 12 Ottobre 2015 in Everest

La tragica spedizione sull’Everest della Adventure Consultants, del maggio 1996, ha dato adito ad uno dei dibattiti più famosi e controversi della storia dell’alpinismo ed è ora diventata un film, diretto da questo regista islandese, la cui fama trascende i confini nazionali.
Scalare il monte più alto del pianeta è una sfida che ha richiamato e continua a richiamare moltissimi alpinisti, dopo la prima ascesa portata a compimento nel 1953 dal neozelandese Edmund Hillary e dallo sherpa Tenzing Norgay.
Negli anni ’90 la scalata dell’Everest diventò un vero e proprio business con l’organizzazione delle prime spedizioni commerciali, di tipo pseudo-turistico.
Il film parla proprio di una di queste.
Nella primavera del 1996 il campo base dell’Everest era sovraffollato per la presenza di molteplici gruppi pronti ad avventurarsi nell’impresa. Alcuni di essi ospitavano aspiranti alpinisti che non erano all’altezza della situazione e la pellicola critica questa sprovveduta scelta di marketing.

Il monte Everest non è sicuramente la montagna più difficile da scalare sulla Terra, ed anzi all’interno del club degli ottomila è una delle più semplici, a dispetto della maggiore altitudine.
Tuttavia, il fatto stesso che si tratti di un ottomila la pone in quella “zona della morte” in cui la sopravvivenza umana diventa fisiologicamente insostenibile, se non per brevi periodi di tempo: l’estrema scarsità di ossigeno porta infatti le cellule a morire progressivamente, senza alcuna possibilità di acclimatamento.
Tra i clienti della Adventure Consultants vi era il giornalista Jon Krakauer, che aveva appena terminato il suo libro più celebre, Into the Wild (che diventerà un film diretto da Sean Penn), in cui presentava la triste storia di Chris McCandless.
Krakauer è uno dei sopravvissuti della spedizione del 1996 e raccontò la sua odissea dapprima in un articolo dell’Outside magazine, la rivista per cui lavorava, poi in un apposito saggio del 1997, Into thin air (Aria sottile).
In questo libro, Krakauer criticò pesantemente l’organizzazione della spedizione, scagliandosi in particolare contro una guida dell’associazione Mountain Madness, che si era unita alla Adventure Consultants nel tentativo di ascesa.
Secondo Krakauer, a causa di alcune incomprensioni tra i due gruppi si manifestarono diversi intoppi, che vengono esposti nel film: il mancato fissaggio di corde sull’Hillary Step, uno dei tratti più complessi; l’assenza di bombole di ossigeno in alcuni punti determinanti. Viene poi criticata la scelta del capo spedizione Rob Hall (una delle vittime) di attendere un cliente ritardatario per accompagnarlo in cima.
Vi sono poi, per l’appunto, le critiche alla guida kazaka Anatoli Boukreev, accusato per la sua decisione di salire senza ossigeno, cosa che lo portò a scendere in anticipo rispetto alle altre guide, senza dunque potersi rendere utile al momento dell’arrivo della tempesta che provocò la perdita di molte vite umane.
Anatoli presentò la sua versione in un libro di risposta, The climb, scritto poco prima di morire sull’Annapurna, diciotto mesi dopo i fatti dell’Everest. In The climb il kazako ricordava di aver salvato diverse vite durante quella spedizione, anche e proprio grazie al fatto di essere sceso prima delle altre guide (molte delle quali non riuscirono a tornare indietro).
In cima erano del resto già presenti vari sherpa e diverse guide esperte e comunque il kazako aveva concordato le sue mosse con il capo spedizione della Mountain Madness, Scott Fischer, l’unico di quel gruppo a perdere la vita, dato che i clienti di Anatoli si salvarono tutti.
Nel film vengono esposti molti degli episodi che hanno dato origine a questa disputa, alcuni dei quali sono stati contestati da Krakauer (come il fatto che sia mai avvenuto il colloquio in cui Anatoli gli chiedeva di aiutarlo nei soccorsi, con Krakauer che rifiutava, essendo esausto).
A parte questo punto, la pellicola si mantiene in posizione equidistante tra le due versioni, aiutandosi nella ricostruzione degli eventi anche con i messaggi radio e le testimonianze di altri protagonisti della vicenda.

Il film è in ogni caso interessante ed emozionante, seppur drammatico.
Gli stupendi paesaggi raffigurati derivano da riprese effettuate in parte sull’Everest, in parte in Alto Adige (in Val Senales), per le ovvie difficoltà dovute all’altitudine.
Forse la pellicola pecca nella caratterizzazione di qualche personaggio, che viene presentato in modo superficiale e poco approfondito; ma c’è da dire che l’unica, vera protagonista di quest’opera è la montagna, lei sì rappresentata in tutta la sua imponenza e la sua drammatica imprevedibilità.
La montagna, ma anche la pulsione che porta l’uomo ad affrontarla, oggetto di un interessante dialogo al campo base, nei giorni immediatamente prima della partenza.
Buone, in generale, le prove degli attori: un cast internazionale con il quale – come di solito avviene – vengono abbellite le fattezze dei reali protagonisti delle vicende. Spiccano in particolare le interpretazioni di Josh Brolin e del protagonista Jason Clarke.

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