Recensione su Passaggio in India

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Passaggio in India
Regia:

L’ultimo Lean (purtroppo) / 6 Luglio 2016 in Passaggio in India

L’ultimo film di David Lean, partorito dopo oltre un decennio di (auto)esilio dal cinema, dovuto ai contrasti con i critici per (e all’insuccesso di) La figlia di Ryan, rappresenta un ritorno alle origini per il regista inglese, che cura direttamente anche il montaggio della pellicola (la sua prima professione, quella che lo aveva lanciato nel mondo della settima arte).
Il soggetto è quello celebre di Edward M. Forster, di difficile trasposizione, soprattutto nell’indeterminazione dell’episodio centrale, che tuttavia pare ben rappresentato nel gioco di luci, suoni e vaghe immagini della scena della grotta.
Sono passati sessant’anni dalla pubblicazione del romanzo, con l’Autore che aveva sempre rifiutato di cedere i diritti di una delle sue opere più note, intimorito da ciò che sarebbe potuto uscire da una trasposizione cinematografica.
Il film si regge – oltre che sulla buona sceneggiatura non originale scritta dallo stesso regista – su una fotografia (dai colori discretamente saturi) che esalta gli splendidi paesaggi indiani (la suggestione d’oriente è una componente fondamentale della pellicola, forse la più memorabile in assoluto).
Centrale il tema del colonialismo in un’India degli anni Venti del Novecento ancora sotto dominazione britannica e con un’accentuata segregazione (emergono anche atteggiamenti palesemente razzisti, ad esempio durante il processo).
Una discreta prova in generale di tutti gli attori, tra cui un Alec Guinness che all’ennesimo ruolo con Lean esalta il proprio trasformismo (per certi versi necessario, vista la recente esperienza con George Lucas nella prima trilogia di Star Wars, che aveva consacrato la sua immagine senile in quella del maestro jedi Obi-Wan Kenobi).
Eppure il personaggio da lui interpretato è probabilmente quello meno riuscito, non in linea con il romanzo e in generale al di sotto delle potenzialità che una simile figura poteva esprimere.
Spicca, invece, il personaggio di Mrs Moore, una Peggy Ashcroft che si aggiudicherà l’Oscar come miglior attrice non protagonista (l’altro Oscar andrà alla colonna sonora di Maurice Jarre, invero meno memorabile delle precedenti).
La versione italiana è stata pesantemente ridotta (i primi effetti di Heaven’s Gate cominciavano a farsi sentire), cosa che tuttavia consente di gustarsi le scene originali con la peculiare parlata inglese degli indiani.
Un film che, nella migliore tradizione delle opere leaniane, è avvolto da una profonda leggiadria, che sembrerebbe apparentemente in contrasto con la struttura da kolossal dell’opera.
Eppure ancora una volta (l’ultima purtroppo) Lean non fallisce il suo obiettivo.

2 commenti

  1. paolodelventosoest / 7 Luglio 2016

    Ho letto il romanzo di Forster un paio d’anni fa e mi ero ripromesso di guardare il film. Dici bene sul senso di indeterminazione del fattaccio, sono assai curioso di vedere come è stato reso

  2. hartman / 7 Luglio 2016

    per l’elegante penna di Forster serviva uno come Lean …
    il fatto della grotta viene reso meglio forse durante la successiva ricostruzione processuale (tramite flashback)… ma l’indeterminazione regna sovrana, su questo non ci piove (forse però non come nel libro)…
    @paolodelventosoest

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