Recensione su I morti non muoiono

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Tragedia surreale / 6 Luglio 2019 in I morti non muoiono

Questo è un film pienamente jarmusch-iano, perlomeno nel ritmo blandissimo del racconto e nei modi con cui Jim Jarmusch ha deciso di raccontare al pubblico il suo punto di vista sulla situazione della società contemporanea, con particolare riguardo agli Stati Uniti.
Perché questo deve essere chiaro da subito: I morti non muoiono è un horror sia nella forma che nei contenuti (e non parlo della presenza degli zombie e dei dettagli splatter), ma non è un horror canonico (come, d’altronde, non lo erano i film di zombie di George A. Romero, qui iper-citato, o gli horror sociopolitici di Carpenter). L’uso della metafora è esplicito e lampante e so bene che non dico niente di nuovo, nel sottolinearlo.
Jarmusch non ha una grande simpatia per l’edonista società dei consumi e prova a rappresentare questo disprezzo con un film bizzarro e interessante, anche se non sempre centrato.

Il parallelismo tra morti che ritornano in vita perché non vogliono morire e morti che camminano sulla Terra senza sapere di essere morti (dentro) è abbastanza semplice e lineare e, secondo me, non desta particolare interesse.
Quel che colpisce, invece, è il cinismo di Jarmusch che, in questo film, non lascia scampo a nessuno (se non agli alieni e ai vagabondi), neppure ai bambini. Per lui, chiunque abbia avuto esperienza di un appagamento di desideri materiali attraverso il sistema capitalistico sembra destinato alla dannazione. Apocalittico.

In questo senso, mi pare che I morti non muoiono si riallacci bene agli ultimi due film di fiction di Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono (2013) e Paterson (2016).
Il filo conduttore dell’ideale trittico (non so se questa trinità cinematografica fosse davvero nelle intenzioni di Jarmusch, intendiamoci) è l’atarassia, la democrita ed epicurea assenza di agitazione a favore di una completa pace dell’anima. I vampiri del primo film e l’autista di bus del secondo hanno molto in comune con l’eremita dei boschi di quest’ultimo lavoro.
Tutti trovano intima soddisfazione nella contemplazione e nel godimento della bellezza. Arte, musica e letteratura: i vampiri. Quotidianità, cascate, poesie e risvegli abbracciati alla propria fidanzata: l’autista. Vita a stretto contatto con gli aspetti più primitivi della Natura: l’eremita.
Tutti questi personaggi sembrano alienati, perché differiscono dalla massa per via dei loro stili di vita, ma Jarmusch suggerisce che sono i più sani fra tutti quelli che circolano sul pianeta. Marziani escusi, ovviamente.

Quel che, forse, nel film non gira a pieno regime è l’elemento comico, affidato perlopiù alla pur brava coppia Bill Murray-Adam Driver e a una gelida Tilda Swinton (che, nella versione originale del film, parla con accento scozzese, che pare sia una specie di cliché comico, negli USA). Ma, in fondo, questa è una tragedia. Surreale (anche per via della chiave di lettura metafilmica suggerita dal personaggio di Driver), ma pur sempre una tragedia. E ci siamo dentro tutti fino al collo.

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