Recensione su Blade Runner 2049

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Un seguito degno, ma non all’altezza / 2 Novembre 2017 in Blade Runner 2049

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

La prima questione che lo spettatore di Blade Runner 2049 si pone dopo i titoli di coda è naturalmente il paragone con il Blade Runner originale: il seguito è all’altezza del prototipo? La risposta deve essere un no convinto: a BR 2049 manca la creatività lussureggiante di BR, la prodigalità con cui l’altro film accumulava scene e situazioni memorabili, che a distanza di decenni ancora si presentano con immediatezza alla mente. BR 2049 è un film più piatto, meno originale, anche se Villeneuve prova a rincorrere BR, in particolare nella sezione ambientata a Las Vegas, con gli ologrammi di Elvis e di Sinatra, il cane, le statue giganti, l’atmosfera giallastra che tutto pervade. Ma il fascino innegabile di queste scene è in parte citazionistico (è ovvio l’omaggio a Shining dell’hotel deserto), e comunque lo sforzo non sembra del tutto convinto. È vero che in questo modo BR 2049 evita anche il difetto principale di BR, in cui la ricerca esasperata della bella scena fa sì che il film si trovi perennemente a un passo dal kitsch – e talvolta un passo oltre il kitsch (i bastioni di Orione, le colombe, etc.); ma non c’è molto merito nel non volere o non potere rischiare.
BR 2049 ha la sua parte di difetti: un facile messianismo, per esempio, con tanto di citazione di Isaia 9,6 («C’è nato un figlio»); la rivolta in preparazione dei replicanti rappresenta sicuramente il nadir del film (le citazioni bibliche abbondano: Rachel creduta sterile che genera Yosef, i trent’anni che segnano l’inizio del ministero del Messia). Anche il sadismo di Luv è esagerato e bidimensionale – curioso come questo personaggio finisca per eclissare quello di Wallace, che in teoria avrebbe dovuto ricevere più spazio. Un problema particolarmente acuto è la disinvoltura (presente anche in BR) con cui si dà per scontata la schiavitù dei replicanti. Nel nostro mondo – e, credo, in qualsiasi mondo appena appena realistico – avremmo un forte movimento per la liberazione dei replicanti, di cui qui non c’è alcuna traccia. Eppure la differenza principale rispetto agli esseri umani è che i replicanti appaiono imperturbabili e sono costretti a obbedire – caratteristiche oltretutto piuttosto labili, come ci mostra il film. Invece nel mondo di BR 2049 tutti danno per scontato che essere nati e non fabbricati faccia tutta la differenza; e questa convinzione è condivisa persino dai replicanti stessi, in un esempio monumentale di falsa coscienza: la rivolta nasce proprio dalla scoperta che anche i replicanti sono capaci di generare, che sono identici in questo agli esseri umani normali. Il film propone per la verità un’alternativa: è il sacrificio di sé, liberamente scelto, a rendere umani. Ma anche questa è a ben vedere una condizione regressiva; l’umanità e i diritti che da essa derivano non dipendono né dalle contingenze della nascita né da meriti eroici, ma dal semplice status di creature senzienti (cosa che i replicanti ovviamente sono).
Il film ha naturalmente anche grandi meriti: una narrazione fluida, che non fa pesare troppo la durata cospicua; un’ottima fotografia; ottime interpretazioni (su tutti la sempre affidabile Robin Wright); una buona colonna sonora (con echi di Vangelis, naturalmente, ma anche del Ligeti di 2001).
BR 2049 dà il meglio nella storia di K. Il nome ha echi kafkiani, che non vengono meno neppure quando Joi lo cambia in Joe (Josef K. è, come tutti sanno, il protagonista del Processo); ma c’è probabilmente anche un omaggio a Philip K. Dick. K deve fare i conti con la propria inautenticità – che ritorna moltiplicata dopo che la breve illusione di avere veri ricordi si è infranta – e con l’inautenticità dell’amore di Joi. Si è molto discusso sull’umanità di Joi: un problema più appassionante di quello dell’umanità (ovvia) dei replicanti. Il film sembra dare una risposta definitiva quando K è affrontato dalla Joi gigante della pubblicità, con gli occhi vuoti (specchio dell’anima: è uno dei temi insistenti del film), che gli dice «You look like a good Joe» (il nome con cui la sua Joi lo aveva ribattezzato), «Sembri un buon tizio»; e la scritta che incornicia la pubblicità è «Everything you want to see, everything you want to hear». C’è qualche indizio opposto (Joi che grida mentre K è esanime e non la può sentire; Joi gelosa di Mariette, Joi che si sacrifica per K), ma è insufficiente a contrastare la palese verità: dietro Joi non c’è un’anima amorosa, ma un’intelligenza che meccanicamente rimanda al suo proprietario tutto ciò che questi vuole nel profondo vedere o sentire. E anche se è difficile immedesimarsi nella maschera un po’ inespressiva di Ryan Gosling, lo spettatore non può fare a meno di simpatizzare per lui e la sua pena.

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