Wenders rilegge il noir di Hollywood / 31 Maggio 2020 in L'amico americano
(Riflessioni sparse)
L’amico americano di Wenders è una forma di rilettura europea del thriller tipico di Hollywood. Come i western di Lang o Leone, il film di Wenders mostra come un genere peculiarmente georiferito e codificato possa essere reinterpretato attraverso il filtro di sensibilità artistiche diametralmente opposte.
Questo di Wenders è un crime pienamente mitteleuropeo che, nonostante la cupa freddezza di alcune situazioni (vedi, la scena della metropolitana di Parigi), non ha gli accenti di altri approcci continentali al genere: non somiglia né al polar francese, né all’esasperato poliziottesco all’italiana. Forse, contiene già ciò che Polanski sperimenterà nei suoi lavori più hitchcockiani (per esempio, penso a Frantic). Qui, come è stato e sarà là, il protagonista, il corniciaio Zimmerman (Bruno Ganz), si ritrova nel bel mezzo di un intrigo internazionale in cui riveste l’incongruo ruolo del killer.
Il film di Wenders si fonda sulla speculazione esistenziale, sulla riflessione uomo/maschera. Perciò, numerosi passaggi si risolvono in maniera astratta, estemporanea, spesso frammentaria, sui passi di un percorso speculativo più che narrativo.
Per esempio, nessuno si premura di testare le capacità balistiche di Zimmerman, né Zimmerman si preoccupa di verificare se le analisi degli specialisti medici di Minot (Gérard Blain) sono attendibili o meno (lo farà la moglie, il personaggio più realista e pragmatico del film). Minot trova Zimmerman riverso a terra e non indaga sul suo stato di salute. E così via.
Il corniciaio di Amburgo non è un uomo d’azione e possiede una sensibilità artistica e umana che si esplica (inizialmente) all’interno della famiglia che sembra allontanarlo anni luce dal compito che gli viene richiesto. Eppure, nel profondo del suo animo, nasconde qualcosa di gretto e animalesco che, giustificato dalla necessità di proteggere moglie e figlio, emerge piano piano, soddisfacendolo in maniera perversa.
Anche Ripley (Dennis Hopper) è alla ricerca di un’identità (confida le sue riflessioni a un registratore) e sembra in fuga da quegli Stati Uniti che, finora, lo hanno definito nell’aspetto e nella filosofia di vita.
Apparentemente diversi per obiettivi e stile, Ripley e Zimmerman sono molto simili ed è per questo che, in un batter d’occhio, diventano amici e complici.
A proposito della rilettura del noir hollywoodiano da parte di Wenders, non è un caso (quindi e, contemporaneamente, però) che nel film compaiano in brevi camei registi statunitensi come Nicholas Ray e Samuel Fuller (che, quindi, dopo Il bandito delle ore 11 di Godard/Nouvelle Vague accetta un ruolo anche in un episodio importante del Nuovo Cinema Tedesco). Sia Ray che Fuller hanno segnato la storia del cinema, soprattutto nel ruolo di “scardinatori”.
Nelle poche scene in cui compare il collega regista, poi, Wenders sfrutta benissimo la naturale presenza scenica di Ray.
La benda sull’occhio (offeso nel 1968) è un tratto totemico condiviso con John Ford, il che è un curioso quanto emblematico scherzo del destino (cinematografico).
Il film di Wenders è tratto dal romanzo omonimo di Patricia Highsmith (1974): grazie al suo ambiguo personaggio ricorrente Ripley, i libri della Highsmith sono stati trasposti spesso per il cinema e, mi piace credere non casualmente, soprattutto da registi europei, da Hitchcock (voilà) a René Clement, passando per Minghella e la Cavani.