ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
Cinquantesimo lungometraggio di Woody Allen e primo titolo della filmografia del regista newyorkese girato interamente in lingua francese.
Un colpo di fortuna è una nuova variazione cinematografica sul tema del caso e del destino tanto caro ad Allen che, però, non sa affatto di stantio e che, piuttosto, mostra una vivacità tecnica invidiabile (forse, non solo per un uomo di 88 anni suonati) che ben si esplica nei movimenti della macchina a mano -virtuosistici ma misurati- che si sviluppano negli interni domestici parigini del film.
Temevo che il film precedente, Rifkin’s Festival (2020), avrebbe rappresentato la fine un po’ incolore della carriera di Allen.
Al contrario, sarei contenta (per il regista) se concludesse la propria filmografia con questo titolo che, a dispetto di alcune risoluzioni narrative drammatiche, è una gradevole ed elegante commedia fuori dal tempo.
Se, pure, il soggetto ricorda per alcuni versi quello di Match Point, questo Coup de Chance risulta meno cupo e doloroso del film con Rhys Meyers e Johansson, perché declina il leitmotiv della fortuna in modo apertamente molto più giocoso.
Qui, la sorte è davvero ironica (i ricorrenti brani strumentali jazz -soprattutto di Nat Adderley- incuneati anche nelle scene più drammatiche stemperano ogni paura) e ha il suo alfiere nel personaggio mite, acuto e vagamente impacciato della mamma della protagonista (brava Valérie Lemercier), che altri non è -secondo me- che uno degli alter ego che Allen infila nei film in cui non compare in scena (qui, poi, ha almeno due proiezioni: Camille, appunto, e il biondo Alain, praticamente alieno alla tecnologia del secondo millennio, con indosso una giacca a coste che, banalmente, sembra rubata proprio da casa di Woody).
Dal punto di vista narrativo, ho trovato interessante il fatto che Allen abbia voluto punire senza appello una figura maschile come quella di Jean (Melvil Poupaud), un manipolatore narcisista, possessivo, paternalistico, maschilista, violento e amorale.
Sia Fanny che Camille percepiscono ma non decifrano appieno l’ambiguità dell’uomo e, anzi, definiscono a più riprese Alain come “meraviglioso”, come se fossero vittime di un incantesimo perverso che gli impedisce di vedere il mostro sotto il ritratto (di Dorian Gray).
Parigi e la sua campagna fotografate in autunno da Storaro sono un incantevole sogno da rivista patinata.
Ho adorato il modo in cui la costumista spagnola Sonia Grande ha dimostrato concretamente come sia possibile mixare gli elementi di un paio di outfit, per ottenerne almeno altri tre, tutti ugualmente impeccabili: il suo lavoro è la mise en place di centinaia di articoli di moda, quelli che dicono “ecco i capi che non possono mancare nel tuo armadio per creare il guardaroba perfetto”. Ovviamente, Lou de Laâge (la Fanny del film) ha la presenza e il phisique du role adatti per dimostrare con nonchalance che un paio di décolleté bicolori in pelle possono essere portate praticamente in qualsiasi situazione (anche sulla ghiaia infida dei giardini di Palais Royal).
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