Recensione su Swiss Army Man

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La selva oscura e la poetica della spazzatura / 14 Ottobre 2016 in Swiss Army Man

Questo primo lungometraggio dei “Daniels” (Dan Kwan, Daniel Scheinert, premiati al Sundance 2016 per la Miglior Regia) è un film spiazzante e difficilmente catalogabile: folle come un film psichedelico giapponese, triviale come una barzelletta da due soldi, creativo come una puntata di Art Attack, Swiss Army Man incuriosisce e, a tratti, diverte senza freni grazie alla buona manipolazione della materia grottesca su cui si basa e che sfiora pericolosamente il vilipendio (di cadavere).

Mischiando le invenzioni “fai-da-te” di fanciullesca memoria di Gondry e atmosfere à la Jonze (oltre che il viaggio in sé, il party nel bosco, in particolare, mi ha ricordato prepotentemente alcune sequenze di Nel paese delle creature selvagge), questo film è il racconto letteralmente assurdo di un’avventura formativa in un bosco, niente di più, niente di meno. Che l’aspra e inquinata selva, poi, sia anche vaga metafora dantesca (e la morte a cui sta per affidarsi lo sfiduciato protagonista, Hank, è, non a caso, di poco più amara), ci sta: Paul Dano interpreta un trentenne insicuro, triste, incline all’autocommiserazione che, ad un passo dal suicidio, scopre di desiderare ardentemente di vivere.
Grazie alla rieducazione del defunto Manny (un ironico Daniel Radcliffe), che non ricorda nulla della propria vita prima della morte (le cui cause risultano assolutamente ignote: stando ad un dettaglio riportato nelle ultime battute del film, forse, è anch’egli un suicida), Hank ne (ri)scopre il gusto, le attrattive, la complessità e la bellezza.

In questo senso, diverte il costante contrasto tra l’abbacinante e varia beltà della Natura che circonda i due compagni di viaggio e l’abbondanza di rifiuti ed elementi antropici che la deturpano: Hank non sembra stupirsene in alcuna maniera e, anzi, usa con fantasia i numerosi segni del passaggio di suoi maleducati simili per apparecchiare le messinscene utili a emozionare Manny e a fornirgli le energie necessarie per attivare i suoi “poteri speciali”. Come un coltellino multiuso (da qui, il titolo del film), il cadavere smemorato offre numerosi servizi “di serie”: flatulenze poderose da sfruttare come propulsori meccanici, denti da usare come rasoi, rigurgiti intestinali da convertire in acqua di fonte, spasmi muscolari più efficaci di una fionda.
Anche Manny è un rifiuto: privo di documenti di identità, approda sulla spiaggia esattamente come il pacchetto di patatine gettato in mare e recuperato da Hank, che, a sua volta, si sente rigettato dal resto della società.
Insomma, una vera e propria poetica del trash, inteso, ovviamente, come spazzatura.

Nel complesso, il risultato è particolarmente originale, degno di interesse, ma parimenti pretenzioso e, forse, nel suo tentativo di essere dissacrante con brio, non è completamente azzeccato in tutti i suoi passaggi, tanto che trovo difficile attribuire un voto al film: il finale che prende in giro gli happy ending, nello specifico, pur rimanendo in linea con il mood della pellicola, mi ha lasciato perplessa.

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