Un film, diversi film / 7 Ottobre 2023 in Fu Zi

A 17 anni di distanza dal suo ultimo lavoro, Patrick Tam, autore di spicco del nuovo cinema di Hong Kong, torna sui temi del disagio sociale ed esistenziale, realizzando in Malesia un’opera sfaccettata, che tiene conto delle innovazioni formali del cinema recente dell’estremo oriente, in particolare quello di Wong Kar-wai, che aveva mosso i primi passi proprio con Tam.
L’inizio farebbe pensare alla rappresentazione di una donna che subisce gli abusi di un uomo che non ama più, o a un rapporto madre-figlio, oppure alle ripercussioni di una separazione su un figlio piccolo. La pellicola diventa invece la storia del rapporto padre-figlio, che è il significato del titolo cinese Fu Zi. Il piccolo Boy, pur potendo scegliere tra la vita agiata con la nuova famiglia della madre e quella piena di difficoltà con il padre, preferisce la figura più debole, nonostante le intemperanze e inadeguatezze di questi. Ed è impossibile non ripensare al Boy di Oshima, anche lui costretto da un padre disfunzionale a rubare, ma incapace di spezzare quel legame. Così come non si può non pensare al cinema “neorealista” giapponese del dopoguerra, ai “cani randagi” di Kurosawa.
E’ un film che si trasforma via via in qualcosa di diverso, rispetto alle premesse, nello stile e nello sviluppo narrativo. Solo i tre personaggi protagonisti rimangono fedeli a se stessi, dimostrando che la natura umana è difficile da mutare. Shing ripete gli stessi atteggiamenti egoistici e violenti che aveva avuto con la compagna Lin, anche con il figlio, ripetendogli le stesse false promesse.
Il cinema hongkonghese tipico degli anni 80 è presente ma appare rinnovato in una direzione autoriale, senza perdere l’efficacia e la semplicità, senza negare il rapporto con il pubblico. Si abbandona l’azione e l’impronta poliziesca, per rafforzare l’analisi sociale e la tematica drammatico-sentimentale. Lo sguardo è, come quasi sempre nel cinema orientale, imparziale, morale ma non moralistico, perché il regista non si schiera e dipinge i personaggi in modo ambivalente, con il bene e il male compresenti in ciascuno.
Lo stile varia, alternando sequenze realistiche e drammatiche ad altre poetiche e contemplative, complici una fotografia calda e avvolgente, soprattutto nelle scene notturne, e un commento musicale usato con parsimonia per sottolineare alcune sequenze, ricorrendo a temi classici o tradizionali occidentali. Il montaggio unisce alla tradizione momenti di innovazione, come la mescolanza serrata di presente e ricordi-flashback.
Ottime le prove attoriali del piccolo Gouw e del poliedrico Kwok, che oltre a Shing interpreta anche il nuovo compagno di Lin. Non so se sia questione di tecnica o di DNA, ma trovo che gli attori orientali recitino tutti con una naturale grazia e spontaneità, pur senza scimmiottare il parlato colloquiale, perché la recitazione rimane un artificio, merito anche della scrittura non banale dei dialoghi.
Come accade sovente nel cinema asiatico è il degrado, il precario, il decadimento, ad interessare il regista. L’ambiente borghese, sicuro, ordinato e pulito, produce una bellezza fredda e scostante. Quando Lin va a vivere nel suo nuovo e confortevole alloggio, il personaggio esce di scena; analogamente l’abitazione del compagno di scuola di Boy è una casa borghese che respinge sia il bambino che lo spettatore. Per gli orientali la legge primaria della natura è l’entropia, opporsi ad essa è inutile, e in qualche caso dannoso e disumanizzante; non resta che cercare una forma di armonia e bellezza nel disordine e nel disfacimento.

Leggi tutto