Recensione su Lo spirito dell'alveare

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Lo sguardo di Ana / 23 Novembre 2016 in Lo spirito dell'alveare

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Ambientato in un piccolo villaggio della Meseta castigliana degli anni quaranta, poco dopo la fine della guerra civile, è un film di raro lirismo, con pochi dialoghi e tutto giocato sugli sguardi, i silenzi e le espressioni dei protagonisti, soprattutto della piccola Ana (sette anni), interpretata da Ana Torrent che da adulta rivedremo in “Tesis” (1996) di Alejandro Amenábar.

La piccola, insieme alla sorella di poco più grande e a tutti gli abitanti del villaggio, assiste alla proiezione del film in un vecchio casolare. Il cinema nelle zone rurali è ancora un evento, ogni spettatore portava la propria sedia e assisteva incantato allo spettacolo.

Il film è il “Frankenstein”, quello celeberrimo realizzato da James Whale nel 1931 con Boris Karloff nei panni della creatura.
La visione sullo schermo del mostro di Frankenstein turba e nello stesso momento affascina la piccola, sensazioni che alla stessa età provai io stesso quando vidi per la prima volta “La moglie di Frankenstein” (1935) sempre di Whale.
Quella notte, quando tornai a casa dando la mano a mio fratello maggiore (il film lo si era visto la sera a casa di amici), vedevo ombre prendere forma da ogni vicolo della cittadina illuminata dalla fioca luce dei pochi lampioni. Inutile dire che una volta giunto a casa e messomi a letto, non dormii. Le domande che si fa Ana nel film erano state anche le mie: “perchè la gente vuole uccidere il mostro?“. Ana non riceve risposta, “nei film non muore nessuno veramente, è tutta una finzione” questa è l’unica spiegazione che ottiene (dalla sorella maggiore), come non ha risposta ai suoi occhi la scomparsa del militante repubblicano che lei aveva trovato ferito in un capanno e aiutato (scambiandolo per il mostro stesso), ucciso dalla polizia franchista.

Ana è l’unica nel villaggio a provare una naturale e istintiva compassione verso il mostro e poi verso il fuggiasco. In una notte passata all’aperto, forse in sogno, la ragazzina rivive la scena del film dove il mostro incontra una ragazzina in riva a un fiume. Fantasia e realtà si fondono agli occhi della bimba.

Una pellicola che può richiamare alla memoria Il labirinto del fauno (2006) di Del Toro, se non fosse che nel film del regista messicano tutto è mostrato chiaramente, i sogni, le creature, la violenza della guerra, mentre in questo si è giocato per sottrazione (immagino anche per superare la censura, si era ancora in piena dittatura) e allusioni. A farla da padrona i fantastici e terribili paesaggi piatti e surreali della Castiglia rurale e, ovviamente, i primi piani di Ana.

Un film suggestivo dove predominate è il punto di vista dei bambini, un’angolazione da cui anche il fragore del passaggio di una locomotiva a vapore attraverso il paesaggio brullo può essere vissuta come un’esperienza pericolosamente seducente, nello stesso modo in cui Ana viene attratta e affascinata dal “diverso”, mostro di un film di fantasia o reale soldato repubblicano fuggitivo che sia.

La figura degli adulti è quasi assente. Il papà , un uomo facoltoso dedito all’allevamento di api (insetti che rappresentano un motivo ricorrente nel film), e la malinconica madre di Ana sono personaggi marginali e silenziosi, incapaci di comprendere fino in fondo il mondo in cui vive la figlia.

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